Storia della musica #59

Alternative country e neo-folk

Negli anni ’90 del crossover totale e delle sperimentazioni con l’elettronica c’è comunque spazio per la tradizione, termine che in America è spesso sinonimo di country, o meglio, siccome si sta parlando di rock, di country-rock: il genere che Gram Parsons aveva “inventato” nei tardi anni ’60 attraverso gruppi come The International Submarine Band, Byrds e Flying Burrito Brothers e che Neil Young aveva portato allo stato dell’arte e sposato col folk; lo stesso suono che durante gli anni’80 era stato rivisitato ripassato al vetriolo dai cosiddetti cowpunk come Jason & The Scorchers, gruppo cui si ricollega idealmente una formazione di matrice hardcore come gli Uncle Tupelo che recupera anche la lezione di musicale di band come Replacements e Meat Puppets (seminali per la loro capacità di rinverdire le tradizioni musicali), nell’esordio  del 1990 “No Depression”.

Il disco, molto semplicemente, segna l’atto di nascita dell’alternative country, un movimento con cui, per ironia della sorte, l’universo del rock alternativo è chiamato a preservare le tradizioni musicali che per primo, fin dagli anni ’50, si era impegnato a scardinare: e così, per assurdo, proprio quando Nashville comincia a flirtare col pop e le parti alti delle classifiche grazie al successo di cantanti  come Garth Brooks, Billy Ray Cyrus, Shania Twain e LeAnn Rimes, i  seguaci dell’alt. country tornano a frequentare i suoni di artisti roots e country (rock) del passato come Gram Parsons, Neil Young,  il Dylan di “Nashville Skyline” e la Band.

Sull’onda del fenomeno emergono gruppi attivi già dalla seconda metà degli anni’80 come Wakabouts, Freakwater e Jayhwaks: questi ultimi, in particolare, in giro dal 1986, sono anche tra i primi, con “Hollywood Town Hall” (1992) a battere, con una sintesi impeccabile di Byrds, Beatles e R.e.m., il sentiero che riconduce verso i territori del pop-rock. Di fronte al movimento alt. country di lì a poco si presenta, infatti, un bivio: perseguire fedelmente la strada della tradizione o battere nuove strade. È proprio quel bivio, nel 1994, a spaccare gli Uncle Tupelo in due e a separare le strade dei due leader Jay Farrar e Jeff Tweedy che vanno a formare, rispettivamente, Son Volt e Wilco.

I primi, all’esordio nel 1995 con “Trace” proseguono sulla falsariga del gruppo originario di Farrar, alternando ballate country desolate e malinconiche a sporadiche esplosioni sonore, strada che continueranno a battere anche nei dischi successivi trovandosi peraltro in ricca compagnia: Whiskeytown, Cash Brothers, Scud Mountain Boys, Lambchop, Willard Grant Conspiracy e 16 Horsepower sono solo alcuni dei gruppi che procedono, seppur in modi diversissimi, lungo quelle coordinate percorso musicali. Nei dischi dei Willard Grant Conspiracy, al debutto nel 1996 con “3 A.M. Sunday Fortune Otto’s”, il country si sposa col folk e con un’atmosfera fosca e drammatica, vicina ai toni chiaroscurali di gruppi d’oltreoceano come Tindersticks e Jack, maturando ulteriormente negli anni fino al capolavoro del gruppo, “Regard The End” (2003): il disco esce per la Glitterhouse, seminale  etichetta tedesca che per tutti gli anni ’90 (e oltre) si rivela fondamentale per l’importazione in Europa di quei suoni.

Tra i gruppi importati nel vecchio continente dalla label ci sono anche i 16 Horsepower, formazione che debutta col disco omonimo nel 1995 e che ruota attorno alla figura di David Eugene Edwards, autore di un country drammatico ed oscuro, impregnato di toni predicatori, che vaga tra gospel e folk rurale e che riprende la vena mistica del Nick Cave più visionario: un discorso sonoro che proseguirà nel 2001 col nuovo gruppo di Edwards, i Woven Hand.

Provengono da Nashville i Lambchop, che nel secondo disco, “How I Quit Smoking” (1996), suonano un country più o meno tradizionale, nella tradizione della loro città d’appartenenza, seppur già caratterizzato da un sontuoso suono orchestrale: già due anni dopo, con “What Another Man Spills” cominciano a dare i primi segnali di cambiamento, coverizzando a sorpresa la star della  blaxploitation Curtis Mayfield, primo segnale di quello che succederà nel disco successivo, il sorprendente “Nixon” (2000) dove il country si fonde miracolosamente col soul orchestrale di philadelphia: un accostamento bizzarro sulla carta ma che funziona meravigliosamente nella pratica, facendo del gruppo di Kurt Wagner (ma sarebbe più appropriato parlare di ensemble) uno dei gruppi più originali dell’intero movimento.

Un caso a parte anche la storia di Joe Pernice, artista eclettico e prolifico che nel 1995 esordisce con gli Scud Mountain Boys di “Dance the Night Away”, gruppo che viaggia sui solchi del country-rock più tradizionale, per poi ripartire da zero tre anni e due dischi dopo con un nuovo gruppo: i Pernice Brothers, gruppo che fin dall’esordio (“Overcome by Happiness” del 1998) si rivela con uno splendido pop da camera in cui il country è solo un lontano punto di partenza. I Pernice Brothers sono solo l’ultimo di una lunga serie di gruppi che, partiti dal country alternativo, si spostano gradualmente verso forme di pop-rock di stampo tradizionale divenendo in pratica gli eredi di quel suono che partendo dai Byrds (e dai Beatles), passando per i Big Star e poi per i R.e.m costituisce una delle colonne portanti del rock d’oltreoceano: i primi a fare la svolta sono proprio i Wilco di Jeff Tweedy.

Il gruppo parte relativamente in sordina nel 1995 con “A.M” e incomincia un percorso di evoluzione e contaminazione che lo porta a stupire tutti con “Yankee Hotel Foxtrot” (2002), disco in cui, con l’ausilio del concittadino Jim O’Rourke, i Wilco danno alla luce un ibrido mai sentito tra country, folk, pop-rock Beatlesiano ed elettronica sperimentale, chiamata qui allo stesso ruolo destabilizzante che svolgeva in “O.k. Computer” dei Radiohead.

Più convenzionale e legato alla tradizione country-rock e rock degli anni ’60 il suono dei Beachwood Sparks, affine  a Lambchop e Pernice Brothers nel conciliare country, pop e soul il Josh Rouse di “1972” (2003), fusione ammirevole di country, folk e R.e.m i dischi dei Grant Lee Buffalo all’esordio nel 1993 con “Fuzzy”, figli del Neil Young più desolato ed etereo e dei Grandaddy più country i My Morning Jacket di “Tennessee Fire” (1999).

Un caso a parte è Will Oldham: esordiente nel 1996 con “Arise, Therefore” dei Palace Music e poi protagonista di una lista impressionante di dischi a nome Palace Brothers e Bonnie Prince Billy (oltre a quelli usciti a suo nome), Oldham è l’anello mancante tra la bassa fedeltà del sadcore ed il country-rock alternativo, rivelandosi anche seminale per la sua riscoperta dei suoni delle origine, in particolare l’ancestrale folk appalachiano: dopo una lunga serie di uscite caratterizzate da un suono asciutto e minimale e da un tono scuro e depresso raggiunge il suo capolavoro  nel 1999 con “I See a Darkness”, dove il suo country-folk scordato si  apre maggiormente alle melodie, avvicinandosi idealmente al compagno d’etichetta Smog.

I due, infatti, oltre alla comun appartenenza alla scuderia Drag City, condividono lo stesso gusto per la rivisitazione in chiave lo-fi della tradizione country e folk filtrata attraverso una vena malinconica figlia di Neil Young e Nick Drake ed un gusto melodico che da slanci lirici improvvisi spesso sprofonda in momenti algidi ed apatici, un suono che si rivelerà un’influenza fondamentale per gran parte dei cantautori americani che porteranno avanti nel nuovo millennio la tradizione folk.

Tradizione particolarmente viva in un inizio di millennio particolarmente nostalgico, che tra un ritorno di fiamma per il rock americano degli anni’70 e un revival della new wave dei primi anni ’80 (fenomeni di cui si parlerà più avanti), vede anche sbocciare un filone folk particolarmente florido: se durante gli anni ’90 i riferimenti cardinali per il cosiddetto sadcore e per il pop  folk del Regno Unito erano stati Donovan e Nick Drake nel decennio successivo lo spettro delle influenze si allarga in America ad includere il folk rock inglese a cavallo tra anni ’60 e ’70, quello  di Shirley Collins, Fairport Convention, Incredibile String  band, Pentangle e dei T. Rex folk del primo periodo; nel frattempo, con  uno spiazzante gioco di specchi, il pop folk inglese (e più in generale europeo) si volge a guardare anche interpreti storici del folk americano come Harry Nilsson e Simon And Garfunkel. Proprio dal vecchio continente è necessario partire, se non altro per motivi cronologici: volendo fare una schematizzazione dolorosa si può dire che laddove il suono del folk americano risulta più sperimentale e in qualche misura ostico, in Inghilterra la tendenza generale è quella di un pop con forti ascendenze folk.

Le prime avvisagli le dà nei tardi anni ’90 il successo dei Belle & Sebastian, gruppo che oltre a rimettere in circolo i suoni del twee pop e a risultare tra i migliori interpreti di quel pop da camera di cui si è parlato poco fa, sono anche tra i primi, almeno nel Regno Unito, ad inglobare l’influenza di artisti come Donovan e Nick Drake: l’interpretazione dei suoni di quest’ultimo è quasi contrapposta a quella che se ne dava nello stesso periodo in America,  dove Drake riviveva soprattutto nella musica di artisti malinconici e  depressi come Smog ed Elliott Smith. Il suono dei Belle &  Sebastian è delicato ed introspettivo ma uno spirito scanzonato ed ironico fanno sì che il tono generale della loro musica sia sempre vivace e se non mancano momenti riflessivi nella loro musica essi vengono spesso alleviati da improvvisi cambi d’umore e di ritmo: per farla  breve, le melodie di Stuart Murdoch e compagni risultano assolutamente pop, confermando d’altra parte una tendenza verso quelle sonorità da parte della musica inglese consolidata e comprovata nei decenni.

Un altro artista fondamentale risulta Badly Drawn Boy, all’esordio nel 2000 con “The Hour of Bewilderbeast”, un disco che per molti versi segna il passaggio simbolico dell’indie rock dal lo-fi al folk: se gli arrangiamenti bizzarri, la vena melodica bislacca e gli sporadici campionamenti fanno parlare molti di una controparte inglese di Beck, la verità è che gran parte del disco viaggia dalle  parti di un folk spruzzato e qua e là di suoni orchestrali, (un corno francese, un violoncello, una tromba…) che cita Donovan e Harry Nilsson.

I dischi di Belle&Sebastian e Badly Drawn Boy spalancano idealmente la strada a “Quiet Is the New Loud”, esordio del 2001 dei norvegesi Kings Of Convenience che deve tanto a Nick Drake quanto a Simon&Garfunkel, disco dal titolo quasi profetico se consideriamo che di lì a poco il magazine musicale inglese N.m.e. conia la definizione di new acoustic movement per inquadrare una non-scena di gruppi dal suono tendenzialmente acustico e folk.

La maggior parte dei gruppi inseriti in quel calderone sono esordienti ed inglesi: Elbow, Lowgold, I Am Kloot, Turin Brakes, Alfie, Tom McRae, Mull Historical Society, ma c’è anche un australiano, Ed Harcourt. Se una delicata vena melodica, una certa raffinatezza negli arrangiamenti (che spesso ricorrono a strumentazione classica) ed una certa quiete di fondo possono in parte accomunare questi gruppi, risulta comunque evidente come in  gran parte quella scena sia una bolla di sapone, tante e tali sono le differenze stilistiche tra i gruppi citati: se formazioni  come Elbow e Lowgold non fanno altro che portare avanti il rock  britannico più o meno tradizionalista di gruppi  come Oasis, Coldplay e Doves, Alfie e I Am Kloot riprendono in parte la sonorità di Badly Drawn Boy (i primi sposandole con una psichedelia a metà tra Beach Boys e Shoegazing), mentre Ed Harcourt, all’esordio nel 2001 con “Here Be Monsters, che alterna i ringhi blues di Tom Waits ad un pop suadente vagamente reminiscente di Rufus Wainwright e Jeff Buckley.

L’isteria della stampa per il movimento neo-acustico dura comunque lo spazio di un’estate o poco più, per la precisione quella del 2001, anno di esordio della gran parte dei gruppi citati: al loro rientro dalle vacanze l’attenzione della stampa inglese è già catalizzata dal fenomeno Strokes e dall’isteria collettiva per il “nuovo rock’n’roll”.

D’altra parte la natura fittizia del “movimento” è ribadita dal fatto che la maggior parte di questi gruppi, arrivati al secondo disco, si avvia verso direzioni diverse da quelle intraprese in passato: alcuni, come i Turin Brakes di “Ether Song” (2003), virano verso sonorità più rock, altri, come gli Alfie di “Do You Imagine Things” (2003) approfondiscono la propria passione per il pastiche psichedelico anni ’60, mentre altri ancora, come l’Ed Harcourt di “From Every Spere” (2003), ribadiscono le proprie caratteristiche musicali e stilistiche. In quest’ultimo gruppo di band rientrano i Kings Of Convenience di “Riot on an Empty Street“ (2004) che tornano a suonare sulle orme di Drake e S&G come se nulla fosse stato: eppure in questi tre anni tante cose sono successe, soprattutto ad Erlend Oye, che nel periodo intercorso tra i due album ha trovato il tempo di firmare un disco solista ed un mix album per la prestigiosa serie Dj Kicks e di collaborare con i  connazionali Royksopp.

Diversissime sono le caratteristiche del revival folk americano: negli Stati Uniti, come si è detto, la tradizione folk era stata portata avanti durante gli anni ’90 da artisti dalla vena malinconica e dal passo trascinato del cosiddetto sadcore e lo spettro di Drake aleggiava nei dischi di Elliott Smith, dove si fondeva con la ricchezza melodica dei Beatles e in quelli di Smog dove riviveva, sporcato almeno inizialmente da un suono lo-fi nei solchi della tradizione (country e folk) americana. Tradizione che era stata rivisitata anche da Will Oldham, esploratore filologico del country e del folk appalachiano, vale a dire quel folk prebellico ed ancestrale che si era sviluppato negli anfratti più isolati della cultura americana: la ricerca sonora di Oldham, lungi dall’essere sterile, si era sposata nelle sue produzioni più recenti con una spiccata vena melodica, che l’aveva avvicinato, come si è detto, alle produzioni di Bill Callahan (vero nome del signor Smog).

Il motivo per cui si ripassa per l’ennesima volta questa fase della storia del rock americano è che questa triade di autori diviene presto fonte d’ispirazione per un gran numero di cantautori e gruppi che tramandano la tradizione folk nel nuovo millennio. Lungo i desolati sentieri del sadcore striscia il folk di Shearwater, all’esordio nel 2001 con “The Dissolving Room”, un suono che è l’ideale punto d’incontro tra quei tre autori, mentre i Little Wings di “Discover Worlds of Wonder” (2000) e “Magic Wand” (2004) aggiungono con parsimonia ritmo ed una ricchezza melodica fuori del comune a quella formula; in senso contrario viaggiano i Castanets di “Cathedral” (2004), che sposano il lo-fi di Oldham con un suono riverberato e cavernoso che ne avvolge e soffoca le composizioni scure e drammatiche.

Sorprendenti si rivelano poi artisti come M.Ward e Iron & Wine in cui la voglia di scavare nelle radici blues e folk della musica americana va di pari passo con una vena melodica ispiratissima: il primo esordisce nel 2001 con “End Of Amnesia”, disco che passeggia brillantemente per i sentieri del folk progressivo di Fahey, gioca con i suoni di Tin Pan Alley, folk appalachiano e blues; un gioco che gli riesce ancora meglio nel successivo “Transfiguration of Vincent” (2003) dove la vena pop esplode definitivamente tra ballate pianistiche degne di Tom Waits e spunti melodici quasi Beatlesiani, pur non rinunciando a quel gusto retro accentuato ancora di più dalla bassa fedeltà dei suoni e dalla voce spezzata di Ward. Affine per molti versi la musica di Sam Beam, meglio noto sotto lo pseudonimo di Iron&Wine, all’esordio nel 2002 con “The Creek Drank the Cradle”, altro disco intento a scavare nel blues e nel folk delle origini, benché in modo meno schizofrenico e più lineare di Ward: sorta di incrocio in chiave roots tra Simon & Garfunkel e Nick Drake fa seguire all’esordio l’ottimo “Our Endless Numbered Days” (2004), dove l’accentuarsi dell’influenza di Drake da a tratti l’illusione di trovarsi di fronte a una versione americana dei Kings of Convenience , le chitarre acustiche affiancate da banjo e pedal steel a trasmettere l’impressione di una musica fuori dal tempo.

Più o meno la stessa impressione che si ha ascoltando “Oh Me Oh My…“, esordio del 2002 di Devendra Banhart: anche qui una traccia di Drake, ma soprattutto la sensazione di trovarsi davanti al Marc Bolan folk dei tardi ’60, il vibrato, i vezzi della voce ed il timbro a rafforzare l’illusione. Ancora una volta ci si trova in realtà di fronte ad un cantautore contemporaneo che sposa suoni in bassa fedeltà (il disco è stato registrato originariamente su un registratore a quattro tracce), spiccato senso melodico e tradizione folk ancestrale: in questo caso però la vena melodica è più bislacca tanto da far venire a tratti alla mente Syd Barrett e il folk di riferimento non è solo quello tradizionale americano, ma anche quello inglese dei tardi ’60: dai primi T. Rex e quella Vasti Bunyan che Banhart usa citare quale fonte d’ispirazione e che rappresenta una delle autrici più oscure di quel movimento folk anglosassone pionierizzato da Judey Collins e portato avanti da gruppi come Pentangle, Incredibile String band e Fairport Convention.

Influenze che ritroviamo anche nei dischi di gruppi come Espers (al debutto omonimo nel 2004) e Faun Fables (autori di “Mother Twilight”, del 2001 e “Family Album”, del 2004) che sono quasi complementari a Banhart nel recupero di quei suoni: sono formazioni che riprendono gli aspetti più oscuri ed arcaici di quella corrente musicale, tra sonorità medievali e spiritualità celtica, più psichedelici i primi, più esoterici i secondi.

Affini nei suoni anche i Vetiver (sul cui debutto omonimo  del 2004 compare lo stesso Banhart in veste di coautore e seconda voce) con un suono che unisce la leggerezza di Bolan alla seriosità della stirpe più dotta del folk inglese, per essere poi dirottato di tanto in tanto verso territori psichedelici Barrettiani. I Vetiver non sono l’unico gruppo a ruotare intorno alla figura di Banhart, che si rivela centrale per questo recupero obliquo e per molti versi inedito di sonorità del passato; una di queste è Joanna Newsom, lanciata da Will Oldham e poi portata con sé in tour da Banhart, all’esordio nel 2004 con “The Milk-Eyed Mender”, è per molti versi un enigma musicale: canzoni tra pop e folk, tra filastrocca e sperimentazione, tra Cat Power e Bjork, disturbate ed accarezzate allo stesso tempo da una voce acutissima da bambina che è quasi una controparte al femminile di quella di Banhart.

Difficile anche da definire le Cocorosie, all’esordio nel 2004 con un disco come “La Maison de Mon Reve” dove prende forma un folk disturbato da campioni di musica concreta trovata (spesso suoni domestici e rurali come grilli, caffettiere, e galli), voci che paiono prese da vecchi dischi jazz ed un suono che ancora una volta ondeggia tra la filastrocca, il folk appalachiano ed il country, piccolo gioiello pop che caratterizzerà insieme a Banhart l’attenzione della critica musicale su questa scena ancora in fieri, fatta di suoni ancestrali e voci bislacche, aromi pop e suoni lo-fi che ha, tra le altre cose, anche il grande merito di recuperare, con ammirevole spirito archeologico, sonorità dimenticate da decenni, proseguendo in modo inaspettato l’operazione di riscoperta del folk iniziata più di dieci anni prima da Will Oldham.

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E T I C H E T T E

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