Blur - The Ballad of Darren (2023)

di Fabio Guastalla, Guia Cortassa

Otto anni dopo "The Magic Whip", e con in mezzo la solita orda sparigliata di progetti duraturi o estemporanei - ultimi in ordine di tempo: The Waeve e l'album solista di Dave Rowntree - un nuovo album dei Blur era qualcosa in cui avevamo smesso di sperare. O forse no, memori del fatto che i Nostri sono tipi imprevedibili, capaci di starsene zitti per anni e poi di uscirsene un bel giorno con l'annuncio a sorpresa di un album fatto e finito.

All'epoca, era stato l'Estremo Oriente a riaccendere la miccia e a ispirare alla band inglese un lavoro che se non era un concept-album a tutti gli effetti, rappresentava quantomeno un accorato omaggio a quel mondo e alla sua sfaccettata cultura. Per "The Ballad Of Darren", invece, il fil rouge appare più sottile, e rimanda a un murales raffigurante Leonard Cohen che Damon Albarn poteva osservare dal suo hotel di Montreal, in Canada, nel corso di un viaggio avvenuto qualche tempo fa. Lo spirito del grande cantautore scomparso nel 2016 sembra in effetti condurre per mano i Blur in questo repertorio che, insolitamente, è composto in buona parte da quelle ballate annunciate già nel titolo stesso dell'opera.

Annunciato come un "aftershock record", è inaspettatamente un breakup-album quello che Albarn ha scritto per la sua band, ventiquattro anni dopo il primo capolavoro dell'amore finito che era stato "13" nel 1999. E l'urgenza emotiva è proprio quello che fa di questo nuovo lavoro del gruppo di Colchester un disco potente e presente, che non scimmiotta i Blur di trent'anni fa, ma che racconta la grande crescita umana e personale dei suoi componenti, riusciti a rimanere credibili nella contemporaneità per tutta la loro carriera.

"È stato come un cataclisma che si è abbattuto su di me. Spero di non doverlo vivere anche una terza volta", è l'unico commento che il cantautore e autore del gruppo ha affidato a un'intervista riguardo alla rottura sentimentale che alimenta la forza dei dieci brani, e "Barbaric" è l'aggettivo che usa per definirlo e che dà il titolo al terzo brano dell'album, quello in cui avviene lo svelamento. Un disco confessionale, più vicino all'esperienza solista di Albarn che alla produzione con i Blur, ma che conferma la grande capacità del musicista inglese di mettersi a nudo senza risultare patetico, esuberante o sopra le righe. Uno stato d'animo che, forse, è implicitamente racchiuso anche nella copertina: uno scatto del fotografo Martin Parr che ritrae un uomo solo, nel bel mezzo di una piscina, sotto un cielo plumbeo e minaccioso.

Burt Bacharach è, dopo Cohen, il secondo nume tutelare del disco. Le sue linee melodiche, gli arrangiamenti dei fiati, la dolcezza dei suoi versi riecheggiano più volte nei trentasei minuti dell'album - trentasei minuti che spazzano via l'ascoltatore, lo coinvolgono in un turbine emozionale tra attimi di introspezione affidati a ballad magistrali e momenti di rabbia che fanno tornare alla luce i Blur più sporchi, quelli in cui il noise amato da Graham Coxon prende il sopravvento e fa esplodere la testa. E' così soprattutto in "St. Charles Square", che in scaletta succede all'incipit fascinoso e patinato di "The Ballad": uno spaccato di quel garage-rock di cui il chitarrista ha saputo ricavare il meglio sporadicamente con i Blur, quasi sistematicamente in tanti anni di carriera solista; e nella coda di "The Heights", che congeda l'ascoltatore con una deflagrazione.

Tra i marosi elettrici e i momenti quasi-cantautorali che fungono da estremi di questa nuova poetica che non di rado si lascia andare a derive da Albarn in solitaria - "The Everglades (For Leonard)" sembra uscire dalle stesse sessioni di "The Nearer The Fountain..." - emergono midtempo ammantati di rarefatta bellezza (su tutti, una grandiosa "Goodbye Albert" e la introspettiva "Far Away Island"). Senza dubbio la fanbase troverà più consoni capitoli quali "The Narcissist" e "Barbaric", un emblema, quest'ultima, di come si possa fare art-pop senza scadere nel banale o nello standardizzato. E, del resto, il compito di "The Ballad Of Darren" sembra piuttosto di spiazzare, di fornire nuove chiavi di lettura rispetto a una materia musicale che pensavamo di conoscere, che credevamo di maneggiare.

Il sound dell'album è invece arricchito da tutte le esperienze parallele che i membri hanno portato avanti nel corso degli anni, diverse per gusti e intenzioni, ma nate dalla stessa cellula madre. E se le felpe Fila, gli spessi occhiali dalla montatura nera e il ciuffo agitato a ogni tocco sul basso rimangono gli stessi del 1991, la maturità artistica dei Blur è innegabile e li incorona come uno dei pochi gruppi tornati sulle scene dopo lunghe pause di anni senza sembrare la caricatura di sé stessi, senza la necessità di rimettere in scena i propri vent'anni con risultati discutibili, ma con ancora molto da dire e da donare alla scena musicale odierna. 

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