Penguin Cafè - Rain Before Seven (2023)

 di Gianfranco Marmoro

Quattro album. Tanti sono bastati ad Arthur Jeffes per consolidare una non facile carriera artistica nata sulle ceneri della Penguin Café Orchestra del padre Simon Jeffes, musicista morto prematuramente a soli 48 anni a causa di un tumore al cervello, autore dal piglio surreale e immaginifico che, con un esordio su Obscure e la presenza di Brian Eno nel ruolo di produttore esecutivo, ha contrassegnato una ricca stagione creativa per la musica neoclassica inglese, grazie a una sintesi essenziale e mai leziosa tra ricerca, armonia e ritmi etno-folk.

Arthur Jeffes ha rimesso in moto l'avventura per musica e immagini (le belle copertine/quadro della moglie di Simon, Emily Young), ridimensionando in parte le ambizioni del padre e anche la denominazione: ora solo Penguin Cafe. Ennesima prova del talento del musicista inglese, "Rain Before Seven..." (titolo ricavato da un detto britannico) è il disco della consapevolezza e della imponderabilità, un progetto sottolineato da estro e leggerezza.

Jeffes si confronta con i fantasmi del passato con abile destrezza, omaggia Harold Budd, Philip Glass e John Cage, ma non resta vittima dell'edonismo dell'enfasi orchestrale. Mai così spavaldo e positivo, affida a un corposo intreccio tra contrabbasso, percussioni e balafon l'apertura dell'album, "Welcome To London", un brano che è un invito a riscoprire Londra dopo il periodo buio del Covid. Una pagina potente e suggestiva che si inebria di chitarre elettrica e arie morriconiane, anticipando la natura decisamente più estroversa di quest'ultimo progetto.

Jeffes ripristina le incantevoli stravaganze folk del secondo album della Penguin Café Orchestra. Accade così che l'onirico incedere di "Cutting Branches For A Temporary Shelter" diventi prodromo del ciclico fluire di percussioni esotiche e di struggenti melodie dall'aurea sognante della suadente "Temporary Shelter From The Storm". In egual modo Arthur recupera, a distanza di quarant'anni, il termine Yodel nel titolo dell'ultima traccia del disco, "Goldfinch Yodel", brano ricco di richiami alle festose trame di "Phitagora's Trousers" (altro brano incluso nel secondo album a nome P.C.O.).

Nel nugolo di citazioni e rimandi, che Jeffes governa con classe e riverenza fino a confonderne le sembianze, c'è spazio per un sentito omaggio a Harold Budd (l'elegante calypso a tempo di valzer "In Re Budd") e un mesto richiamo al binomio Michael Nyman/Peter Greenaway nel gioco d'archi e piano della più austera "No One Really Leaves...".

L'approccio decisamente più eterogeneo dal punto di vista geografico/musicale restituisce parte di quella freschezza che la Penguin Cafè Orchestra amava vestire di colore e imprevedibilità. Virtuosismo e minimalismo spesso vanno a braccetto regalando delizie barocche di rara bellezza, come "Galahad", brano dedicato al defunto cane di Jeffes, o intercettando arie pop e groove latin-afro-soul nel pulsante insieme di archi ed elettronica di "Find Your Feet".

Disco ricco di vitalità e rinnovato vigore, "Rain Before Seven..." raramente raggiunge il confine con la musica da documentario scientifico/naturale ("Second Variety"). A volte scava nelle profondità con tocco greve ("Might Be Something"), per poi prendersi amabilmente gioco della malinconia ("Lamborghini 754").

L'ultimo album dei Penguin Cafe è il disco della maturità, una raccolta di dieci composizioni che non hanno il sapore agrodolce della routine. Un progetto spavaldo che solo i più snob troveranno fin troppo ottimista e spensierato, mentre rappresenta la più riuscita celebrazione della fantasiosa irriverenza di Simon Jeffes. Un disco coinvolgente e stimolante.

Fonte originale dell'articolo


Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più