Califone - Villagers (2023)

di Fabio Marco Ferragatta

C’è chi dice essere rimasto sotto “All My Friends Are Funeral Singers” e chi mente. Certamente i Califone non sono solo quell’album, ma quell’album fa e farà sempre la differenza, che si parli di post-rock (riduttivo), di alternative rock (ancor più riduttivo) e di qualsiasi altro genere che ci venga in mente di poter accostare alla band di Chicago.

Tim Rutilli è ancora qui e lotta con noi, si direbbe, ma la sua è una lotta controllata, una lotta contro l’appiattimento della forma canzone, delle melodie, della capacità di scrivere brani aspri anche nel caso in cui si riesca a fischiettarli oppure ariosi e pacificatori, e con sé stessi e col mondo. Dice: “Sento che combinare elementi di Captain Beefheart, soft rock anni ’70 e suoni digitali rotti è la cosa giusta da fare. Ci sono parole e immagini che messe assieme non funzionano, immagini che accostate non hanno nulla a che vedere le une con le altre, ma sono giuste”. Se osservate bene l’artwork di “villagers” vi renderete conto che ha tutto senso: gli oggetti più disparati (occhiali da sole rotti, tappi di bottiglia, dadi, conchiglie, fiori, animali e teschi di plastica, cartoline, bracciali, una spilla da balia, un guanto, forbici) che presi singolarmente potrebbero non dirci nulla messi assieme assumono un loro perché. Come quando svuoti vecchi armadi e cassetti e ci ritrovi una vita ormai passata.

Il disco suona proprio così, un’accozzaglia matta di elementi che diventano un tutt’uno e aprono la strada a un insieme che pare impossibile si possano amalgamare sensatamente ma invece… Prendete McMansions, è una ballad dai contorni country a tutti gli effetti poi, ad un certo punto, tutto va in mille pezzi e fa la sua comparsa la follia, field recording, pianoforte, suoni schiantati male. L’apocalisse “pop”. Funziona. È la cosa giusta da fare. I tanti collaboratori, quelli storici e che trovate sparsi in tutta la discografia califoniana, si ritrovano e stringono attorno a Rutilli e lo seguono in questi percorsi tortuosamente semplici.

La title track è materia Americana suonata picchiando il più duro possibile sul legno degli strumenti, fiati lanciati in fanfara su Comedy la rendono il brano perfetto per un piano bar in rovina, Halloween si apre con un synth sinistro (che frigge sottoterra per tutto il tempo) ma poi si rivela essere dolce lucore crepuscolare, The Habsburg Jaw elegia post-rock dal manto di notte, tremolo e rock’n’roll acustico spaccaossa Skunkish, il sapore outsider-root di Ox-Eye imperlato di percussioni che paiono cadere dal soffitto e quell’elettrica a strappo punteggiata salvo espandersi in esplosioni di rumore melodioso e quei coretti, per l’appunto, soft rock (Nora O’Connor e Macie Stewart a dar man forte) e un giusto tocco soulful a coronare il tutto.

La voce di Tim è ancora una volta lì a sovrastare tutto: sofferta, piena di quella potenza che solo certa gentilezza possiede, si imbarca tra liriche folli e comprensione di se stesso meno dure che in passato, forte dell’amarezza del tempo (sempre ammesso che sia mai stato più giovane e non saprei dire, forse no), potente di una tenerezza unica, l’arma preferita di gente come Will Oldham e Mark O. Everett, al cui fianco Rutilli sta di un bene che non vi dico, ma, se siete qui, già avete ben presente quello di cui sto parlando.

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