Fire! Orchestra - Echoes (2023)

di Fabio Marco Ferragatta

Giugno 2016, Novara Jazz Festival. Varcata la soglia del Broletto, una piazzetta gremita di sedie, quasi tutte piene. Nelle prime file, come si conviene in queste occasioni, pellicce e vestiti buoni. Sul palco, a poco a poco, salgono Mats Gustafsson, Andreas Werliin, Johan Berthling, seguiti dai quattordici dell’Orchestra. Il leader attacca una lunga batosta al sax baritono e la Novara bene trasale. Noialtri, invece, sogghigniamo e cominciamo il viaggio. Il resto del concerto è un turbine magistrale di cosa il jazz è, è stato e sempre sarà, con melodie e tensioni, giocosi richiami tra tutti i componenti dell’ensemble. Il disco fuori, allora, era “Ritual”. Già, e come sempre, roba altissima.

Dopo un altro paio di album il trio di fuoco deve ben pensare a come superare sé stesso, cosa non troppo semplice, dati i precedenti. Pensa al “Big Bang”, un gioco di parole (big band) azzeccato dato che l’Orchestra questa volta è davvero un’orchestra, in controtendenza alle riduzioni di organico viste nel recente passato. Gli elementi messi in campo sono 43 (quarantatré), una follia totale oggi che “less is more”, in ogni dove in tutti i sensi. Ma la grandeur è cosa che compete a pochi e farla bene a meno ancora, c’è il rischio di strafare, di esagerare ma non in positivo, di fare il passo più lungo della gamba. Per fortuna i Fire! sanno il fatto loro, hanno l’estro, l’intelligenza e le competenze per amalgamare gli ingredienti con arte e al fine di crearla. Il risultato non tarda ad arrivare. Abbandonata l’idea di Big Bang il disco viene battezzato “Echoes”. Grado di difficoltà all’ascolto: grave. Minutaggio: monstre. “Echoes” non è un album che si può approcciare con delicatezza o sconsiderata distrazione poiché nelle sue quattordici tracce si nascondono mondi, linguaggi, espressioni che necessitano la più totale concentrazione.

I brani ECHOES costituiscono il segmento maggiore di questa galassia, sia per durata che per espressività. La voce bassa e magmatica di Mariam Wallentin (svedese, classe 1982) si prende la scena in To Gather It All. Once., un morbido “drone” jazz staziona appena sotto le liriche e gira in cerchio fino al crescendo inevitabile che sfilaccia la melodia fino a slabbrarsi totalmente. Lost Eyes In Dying Hand attacca disarmonica, clangori metallici e free form, rumore e battibecchi strumentali, poi al centro ecco il canto nervoso di David Sandstrom, mentre il suonato prende sembianze sabbathiane interpretate da jazzisti in botta trip hop, il sax tenore di Joe McPhee che squarcia la tela è un sussulto, la coda un martoriante assalto jazzcorenakedcity e questa volta le grida sono “Yamantaka Eye – Il Ritorno” e distruzione, pochi secondi, sufficienti. Un giro insistente di contrabbasso e contrappunti di archi introducono Forest Without Shadows ed ecco la giungla che passa veloce mentre i legni accompagnano batteria e percussioni nevrasteniche e infine ecco i fiati piantarsi come chiodi a dar il colpo di grazia.

Un badile funk che sa di Sudamerica si abbatte su Cala Boca Menino, mentre attorno si stringono pareti atonali, grida e cori tribali disancorati dal ritmo, chitarretrapano e suoni demolitori, trombe, cornette, malessere. Ancora a sud, sempre più a sud, vive e prolifera A Lost Farewell, la cui struttura è un groviglio percussivo, suggestioni di calore ed epicità che transitano attraverso dissonanze scomposte e infine tramutate in una marcia da mardì gras stradaiola e scomposta. Le due parti di I See Your Eye aprono e chiudono la porta, la seconda con McPhee al microfono a declamare blues a un passo dalla slam poetry, manforte ritmica a tutto spiano, si sente l’odore di asfalto salire quando Gustafsson appare sulla scena.

Tutt’attorno a queste torri sonore piccoli epicentri noise, i brani non-ECHOES che nell’economia del resto spesso stonano e nemmeno poco. Sgradevoli presenze sintetiche, schizzi industriali, chitarracce distorte schiantate, un berimbau pestato senza posa, ulcere di silenzio malato interrotto dal terrore e da ansie illbient spezzate da respiri raga, quasi un disco a parte (che sarebbe stato meglio fare). Che ci sia lo zampino di Jim O’Rourke, chiamato in causa per mixare quello che, a conti fatti, è un disco letteralmente gigantesco e che senza questi intrusi sarebbe stato praticamente perfetto? 

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