Chickasaw Mudd Puppies - Fall Line (2023)

 di Marco Denti 

Quando i Chickasaw Mudd Puppies incisero White Dirt nel 1990 e 8 Track Stomp l’anno dopo, erano tempi in cui anche dei bizzarri outsider potevano trovarsi come produttori Willie Dixon e Michael Stipe, e un mondo gli si apriva davanti. Loro, invece, si presero una lunghissima vacanza fino a oggi, che auguriamo a tutti, finché alcune canzoni non sono finite in altrettanti film e, riscoperti, sono ripartiti dalla preistoria, nel senso che un paio di brani risalgono ai loro esordi e che la Fall Line del titolo è la linea di faglia che dall’Atlantico divide la Georgia tra il Piedmont e la costa. È un’area dove, proprio per la formazione geologica, la corrente dei fiumi tende a essere meno impetuosa e più vivibile, cosa che rende le rive e gli argini ricchi di storie.

Da lì attingono i Chickasaw Mudd Puppies che, fin dal nome (che fa riferimento a una tribù nativa poi dislocata in Oklahoma) hanno sempre avuto un saldo legame con le proprie radici, che è rimasto tale anche in Fall Line, nonostante i decenni trascorsi. Se c’è un cambiamento, è che nel frattempo sono diventati un trio, perché agli originari Brant Slay e Ben Reynolds si è aggiunto Alan “Lumpy Weed” Cowart (notare il soprannome) alla batteria e altre percussioni e così, volendo, il suono di Fall Line è più “normale” di White Dirt e 8 Track Stomp nel senso che è meno sgangherato e si avvicina agli standard del rock’n’roll, con un sound più strutturato e corposo, e non è mica un problema, anzi.

Fall Line ha quel gusto libero di una rock’n’roll band che inneggia senza patemi a Elvis e a Tony Joe White, rumoreggia nel garage in continuazione, pratica la sana abitudine del disturbo della quiete pubblica (ne hanno un po’ per tutti) e si spinge nelle paludi di blues torbidi e infernali (9 Volt, Preacher) o nel jungle rhythm di Bob Diddley (Roadkill, Hands, Navigate) con gli strumenti, dalle chitarre all’armonica, distorti al punto giusto, ovvero un bel po’. Da lì al “voodoo lounge” degli Stones il passo è più naturale che breve (Flatcar, Scale) e i Chickasaw Mudd Puppies martellano con convinzione come se stessero evocando antenati e spiriti in un rito ancestrale interrotto per motivi che forse non conoscono bene nemmeno loro. Eppure suonano ancora come forsennati: tamburi e chitarre (elettriche, slide, acustiche, banjo, l’arsenale completo) non fanno prigionieri (Birdsville, Florida) e quando i ritmi rallentano (Prison) all’appello mancano soltanto i lupi mannari o il fantasma di Screamin’ Jay Hawkins che aleggia lungo tutta la Fall Line, anche se poi i veri riferimenti restano i Creedence.

All’epoca, i Chickasaw Mudd Puppies cavalcavano Lodi senza pietà, chissà che non ricomincino.

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