In Bloom - Nirvana

di Umberto De Marco

Ho conosciuto i Nirvana grazie ad Erry. Se non fosse stato per lui per me sarebbero stati solo “un gruppo di drogati”, come dicevano certi tizi a scuola, che facevano canzoni rumorose e piacevano alle ragazze alternative. Non sentivo la radio e l’unica musica che ascoltavo era quella che passava la televisione. Quando trovavo un gruppo che mi piaceva, andavo a piazza sant’Agnese, perché di fronte l’Usl c’era Gennaro che vendeva le cassette pirata. Arrivava lì la mattina, parcheggiava l’auto e le metteva sul cofano. Non erano tutte, dai finestrini si potevano vedere che nell’auto, sui sedili posteriori, c’erano degli scatoloni che contenevano altre cassette. Costavano cinquemila lire l’una, ma se ne compravi quattro o cinque ti faceva lo sconto. Un giorno andai da lui per comprare Hanno ucciso l’uomo ragno degli 883. Andavano molto di moda in quel periodo, Italia1 usava le loro canzoni come sottofondo per le pubblicità dei suoi programmi e dei film, in più il gruppo era apparso a Non è la rai e al Karaoke. Non appena comprai la cassetta, la misi nel mio walkman e mi avviai verso casa. Ancora oggi mi piace camminare con una colonna sonora. Allora, come ora, avevo l’impressione che per far assumere una forma diversa al mondo bastasse semplicemente trovargli una musica di sottofondo. Max Pezzali cantava ed io osservavo la stazione della Vesuviana: alcuni dei miei compagni di classe prendevano il treno ogni giorno per venire a scuola, eppure tutto ciò che mi faceva venire in mente è che bastava un treno, appena trenta minuti di treno per arrivare in città. Volevo scappare, anche se non ricordo bene il perché. O forse lo ricordo: un adolescente di provincia non può volere altro che la fuga, lasciarsi tutto alle spalle, la scuola, i genitori, i professori, il coprifuoco del sabato sera. Una volta via, ovviamente, non avrei saputo cosa fare, ma ero sicuro che ciò che desideravo non era in quel maledettissimo paese in cui vivevo. Il problema era che non avevo la più pallida idea di cosa desiderassi. I miei compagni di classe non erano affatto come me, anzi, sembrava che ciò che desideravano l’avessero già trovato: forse in classe, forse nel cortile della scuola, oppure nell’angolo di strada dove il sabato sera si incontravano con i loro amici. Insomma, ero il classico ragazzino solo. Quando camminavo col walkman a tutto volume, però, la solitudine assumeva la forma della malinconia. Quel senso di desolazione che mi portavo sempre dietro restava ma diventava un po’ più dolce, più facile da sopportare. Tornato a casa, mi stesi sul letto, sempre con le cuffie nelle orecchie. Ascoltai tutte e nove le canzoni di quel disco poi, invece, di cambiare cassetta o spegnere, rimasi in ascolto: dopo pochi secondi potei sentire una voce profonda che diceva “Questa cassetta è mixed by Erry”, per poi ascoltare una canzone inglese mai sentita prima. Tutte le cassette Mixed by Erry non ammettevano che ci fossero minuti di nastro non inciso, e contenevano canzoni che non c’entravano niente col gruppo che avevi comprato. Tempo prima avevo scoperto Sting grazie ad una cassetta di Jovanotti. La canzone americana che ascoltai era fatta di chitarre stridenti e di una voce roca che più che cantare urlava, ma senza gridare, come se l’urlo fosse l’essenza di quel canto, non la sua forma. Non mi piacque, ma una volta conclusa la ascoltai di nuovo. Feci lo stesso anche con le tre canzoni successive, che sembrano essere dello stesso gruppo. Neanche quelle mi piacevano, ma c’era qualcosa che mi attirava, qualcosa che mi spingeva a voler sapere cosa significassero quelle parole. Oggi è facile: si va in internet e qualsiasi domanda trova una soluzione. Allora non era affatto così. Per questo il giorno dopo tornai da Gennaro. Gli passai il mio walkman e gli chiesi: “Come si chiama questo gruppo?” Lui ascoltò pochi secondi. “Sono i Nirvana”. Poi, senza che neanche glielo chiedessi, mi passò una cassetta. Mentre tornavo a casa mi resi conto che quella musica era la colonna sonora perfetta di ciò che guardavo, che quel canto era il mio canto e anche se non conoscevo il senso delle parole mi rendevo conto che dicevano le stesse cose che provavo io. A casa pensai che quelle erano state le cinquemila lire meglio spese della mia vita.

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