Pitchtorch - I Can See the Light From Here (2023)
di Yuri Susanna
Non ricordo nemmeno più quando, prima di oggi, mi sia capitato di recensire l’album di una band italiana, tanto poco frequento la scena autoctona. Per questo I Can See the Light from Here arriva alle mie orecchie come una sorpresa, piacevole e appagante. I Pitchtorch – gioco di parole che getta un ponte tra la funzione del diapason e quella della torcia – fanno dell’eclettismo la cifra della propria offerta musicale. Un eclettismo che non viene esibito con pose autoreferenziali ma, umilmente, si piega al servizio delle canzoni. Già, perché questo è sicuramente un disco che nasce da una studiata ricerca sui suoni (ci riconoscerete senza troppo sforzo una tendenza trasversale verso la psichedelia, ancorata però a una certa sensibilità alternative anni ’90) ma è anche, e soprattutto, un disco di canzoni, e in questa capacità di mantenere la scrittura all’interno di una forma riconoscibile e fruibile risiede probabilmente la forza che eleva i Pitchtorch dalla massa della bulimica produzione discografica indie contemporanea.
Le atmosfere sognanti e desertiche del primo lavoro (uscito nel 2019) non sono state abbandonate: quell’aria da “Paris, Texas” che circonda la cinematografica Ask the Dust (con il cameo di Joachim Cooder) e le liquidità vagamente Grateful Dead di Mother sono lì a testimoniarlo. Però, per affrontare questo secondo giro di valzer, Mario Evangelista (The Gutbuckets), Danilo Gallo (Guano Padano) e Marco Biagiotti (The Vickers) hanno deciso di mescolare con più imprevedibilità le carte della loro formazione musicale e ne è uscito un quadro caleidoscopico di riferimenti che spaziano dalla ballata folk di disarmante semplicità (Blame It on the Moon) alle trame quasi zappiane dello strumentale Downtown Livorno. Al centro del disco, autentico cardine intorno a cui ruota la vorticosa creatività del trio, c’è poi il brano forse più interessante, quel That’s Our Blues che parte della lezione dei Calexico per abbracciare in una danza lisergica Captain Beefheart e i Pink Floyd.
Se considerate che l’album si apre con due brani, Sometimes e Jack of All Trades, che proiettano memorie grunge (o stoner, se preferite) sull’orizzonte d’attesa dell’ascoltatore e si chiude in punta di piedi con un secondo strumentale, questa volta acustico, avrete la misura della varietà che vi attende, una volta varcata la soglia. Qualcuno continuerà inevitabilmente a preferire i Pitchtorch del primo disco, più facilmente assimilabili a un’idea di roots rock più tradizionale, fatto di chitarre slide e mandolini. Noi, che di roots rock ne mastichiamo da colazione a cena, confessiamo invece che questo nuovo corso ci ha intrigato non poco.
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