H.C. McEntire - Every Acre (2023)

 di Fabio Cerbone 

Tra rinnovamento e tradizione, Heather McEntire conferma il ruolo di nuova portavoce del folk americano nato fra le terre antiche dell’Appalachia, lei che è cresciuta in North Carolina, educata da una famiglia evangelica in un ambiente molto conservatore, ma presto resasi indipendente e alla ricerca di una propria identità. Testimone orgogliosa della comunità LGBT+, donna omosessuale che ha dovuto affrontare un percorso di realizzazione e indipendenza non privo di ostacoli, compresa la sua battaglia contro la depressione, H.C. McEntire ammette candidamente di scrivere canzoni per esorcizzare la vulnerabilità e i luoghi oscuri che emergono dai suoi conflitti interiori, mettendoli però in parallelo alla bellezza dei paesaggi naturali della sua terra e al battito musicale che è proprio di quelle latitudini.

Da qui il legame con il gospel, la country music, quella sorta di “soul appalachiano” che attraversa le sue disadorne ballate, a maggior ragione in Every Acre, terzo album solista in casa Merge records che sembra farla ritornare sui passi più decisi della memoria roots (lì dove aveva cominciato da leader dei Mount Moriah, sua prima band) dopo le ambientazioni più indie rock del precedente Eno Axis. La dimensione raccolta dell’album è evidenziata fin dall’introduzione di New View, colorazioni americana e soul che rappresentano il teatro ideale per la dolcissima vocalità della McEntire, una delle più belle del genere spuntate in queste stagioni.

Questi contorni musicali rarefatti saranno la cifra stilitica di tutto il viaggio di Every Acre, anche se fra i sospiri di alcune ballate (struggente il duetto con la quasi conterranea SG Goodman in Shadows, altrettanto commovente il languore soul che si imprime sull’interpretazione della pianistica Dovetail) si fanno largo leggere trame elettriche e note psichedeliche, frutto del lavoro di Luke Norton alle chitarre, che arrichiscono la tavolozza dei colori del disco. Il primo spunto affiora in Turpentine, con l’ospite Amy Ray (Indigo Girls) a partecipare nel ruolo un po’ di madrina per la stessa McEntire (le due avevano già collaborato in passato in un disco della Ray): la canzone si dipana con la struttura di un luminoso folk rock, replicando la formula persino con maggiore successo melodico e divagazioni psych nella sognante Big Love, ma soprattutto in Rows of Clover, tra le dichiarazioni poetiche di maggiore intensità del disco, canzone evidentemente rischiarata una volta di più dalle chitarre acidule di Norton e dalle tastiere di Missy Thangs, quest’ultima anche nel ruolo aggiunto di produttrice insieme alla stessa McEntire.

L’incedere alla Neil Young e l’inconcondibile sapore rock rurale che caratterizza le chitarre in Soft Crock si ricollegano alla produzione di Heather con i citati Mount Moriah, piccola meteora alternative country che forse ha raccolto meno meriti del previsto, così come all’esordio solista della stessa cantautrice, Lionheart, mentre il finale torna a sciogliersi in acque più quiete, sospeso nella grazia delle emozioni di una liquida Wild for the King e nel canto angelico di Gospel of a Certain Kind, episodi in cui non cadiamo lontani dai momenti più confessionali dell’ultima Angel Olsen, della quale, guarda caso, H.C. McEntire è stata la corista in tour.

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