The Waeve - The Waeve (2023)
Quando sul finire del 2020, in piena depressione pandemica, Graham Coxon venne invitato a esibirsi a un concerto di beneficenza in un piccolo club di Camden, non poteva certo aspettarsi che quell’incontro casuale nel backstage con Rose Elinor Dougall – cantautrice londinese classe 1986 cresciuta a Brighton, con importanti trascorsi nella meteora Pipettes a metà ’00, una militanza alla corte di Mark Ronson e tre album solisti, invero piuttosto interessanti, all’attivo – avrebbe cambiato così tanto la sua vita. Le loro vite.
E così, dall’idea di lavorare insieme a qualche brano si è arrivati infine a questo debutto sulla lunga distanza, anticipato nei mesi scorsi da alcuni singoli che lasciavano scorgere per il chitarrista dei Blur (in procinto, peraltro, di riaccendere i motori per un lungo tour in questo 2023) l’inedita esplorazione di cupi orizzonti, tra fascinazioni kraut e post-punk, con protagonista una voce femminile in apparenza così distante dal suo tipico canto sgraziato, storicamente più a suo agio su uno sfondo di intimisti paesaggi english folk (The Spinning Top) quando non, andando più indietro, chitarre a rotta di collo power-pop (Happiness In Magazines) o bozzetti lo-fi (The Sky Is Too High).
Che Coxon fosse però propenso ad allontanarsi da territori familiari lo avevano lasciato intuire tanto le soundtrack per Netflix (The End Of The Fucking World, I Am Not Okay With This) quanto il sorprendente cameo, purtroppo non concretizzatosi dal vivo causa pandemia, con i recenti Duran Duran di Future Past. Qui, però, siamo di fronte a qualcosa di completamente diverso. Prima ancora che un side project collaborativo, The Waeve (da pronunciarsi come wave) suona, sin dallo sconcertante incedere motorik di Can I Call You, come un’entità del tutto nuova e autonoma, scaturita dall’unione personale e artistica di due identità fusesi insieme. Oggi Rose è la nuova compagna di Graham, madre del suo terzo figlio. Non sono solo una band: sono, anche, una famiglia.
Graham&Rose scrivono, suonano, cantano tutto in coppia. Se non è, almeno concettualmente, un Two Virgins – inteso in senso lato come labour of love, ovvero prodotto discografico di una dirompente e incontrollabile passione/compenetrazione reciproca – poco ci manca. Oltre a John&Yoko non vengono in mente altri antecedenti, se non – restando in territori più affini – John&Beverley (Martyn) o Richard&Linda (Thompson); ma nemmeno attraverso questi riferimenti si renderebbe giustizia a questa musica e a queste canzoni, dacché non si tratta tanto di rievocare un mondo specifico (quello del folk britannico, comunque amatissimo dai due, specie nella sua accezione più gotica, ancestrale e spettrale) quanto di dispiegarne uno nuovo, possibile, coniugando le influenze e le idee più disparate dettate dalla Musa – o in questo caso da Venere, se preferite.
Da un lato, Coxon tira fuori dal cassetto il suo primo amore, il sassofono, alla ricerca di un punto di incontro tra Bowie (si ricorderà, anch’egli sassofonista per diletto nei suoi solchi) e i King Crimson di Islands (quando non i Van Der Graaf Generator); un suono – anzi, una voce – che ha finito per caratterizzare la maggior parte dei brani, ora accompagnando con frasi melodiche, ora dirompendo con rumorismi alla Coltrane, ora limitandosi a sottolineare alcuni passaggi, sempre in maniera gustosa (nel suo classicismo soul, il finale di You’re All I Want To Know è commovente).
Non che la sua chitarra non sia altrettanto protagonista; soltanto viene usata in differenti modi e contesti, dispiegando una varietà di stili e approcci che solo un campione dello strumento come lui può permettersi di padroneggiare; dagli ululati di Can I Call You al gustoso solo in chiusura di You’re All I Want To Know fino ai misurati interventi in Over And Over; se non bastasse, in All Along viene persino scomodato un cittern (un liuto medievale). Non è comunque vero che qua e là non affiorino tratti immediatamente riconoscibili: l’andamento Alex James del basso di Kill Me Again è davvero smaccato, e che lo stile di Graham debba da sempre qualcosina al post-punk – in particolare ai Wire – non ce lo insegna certo questo disco, ma è sempre un piacere percepire quelle vibrazioni (Someone Up There). Altrettanto dicasi per quella malinconia tipicamente bowiana che, tra tanti epigoni, solo i Blur hanno saputo ricreare (vedi qui Over And Over e Undine), mentre gli eccellenti interventi orchestrali disseminati lungo le tracce non fanno che confermare le altrettanto indiscusse doti di arrangiatore e produttore del Nostro.
Dal canto suo, oltre a sfoggiare una vocalità profonda, suadente, in un registro vario e ricco di suggestioni (un po’ Sandy Denny, un po’ la Bobbie Gentry evocata dal bel tributo dei Mercury Rev di qualche anno orsono), la Dougall tira fuori un campionario di synth e arpeggiatori che rivelano un malcelato – e, vivaddio, profondissimo – amore verso gli indimenticati e compianti Broadcast, senza dimenticare i Portishead virati kraut di Third; d’altronde, le tracce di un percorso di formazione e di ambizioni che andassero ben oltre il vintage pop in costume delle Pipettes risultavano evidenti già dalle sue buone e sorprendenti prove discografiche (e, se il sangue non è acqua, l’essere sorella di Tom Dougall dei Toy spiega molte cose); ma è qui che il potenziale si dispiega in tutta la sua efficacia: ascoltare come si sviluppa la vorticosa Drowning per credere.
Questi gli ingredienti. Ma, come anticipato, The Waeve non funzionerebbe così bene senza l’alchimia venutasi a creare tra i due protagonisti. Ciò che lo rende davvero un buon album (e un buon progetto), al di là dei singoli episodi, è il saper disvelare un percorso dall’ombra alla luce, una progressiva scoperta reciproca attraverso la costruzione di un dialogo di emozioni e sentimenti, in un dispiegarsi crescente dall’oscurità delle prime tracce (lo sconforto pandemico che riecheggia nel “we can’t go back to the good old days” di Sleepwalking, o ancora l’invocazione salvifica “hold on to me as the waters rise” in Drowning, cuore tematico e stilistico del disco), fino al chiarore abbacinante delle invero splendide tre ballate poste in chiusura (Undine, Alone And Free e soprattutto la romanticissima You’re All I Want To Know: “so stick around, it’s too late to turn back now / There’s something you should know / I ain’t letting you go”). Un disco allegorico, se volete, che sa raccontare il riscoprirsi umani attraverso l’amore; l’amore l’uno per l’altra, l’amore per la musica, l’amore per l’arte che salva la vita.
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