Storia della musica #26

 Il pop rock anni ‘70

Se il pop-rock è un fenomeno che in fondo è sempre esistito, in senso lato, fin da quando le asperità del rhythm’n’blues e dei suoi derivati vengono ricondotte ad una veste più melodica, nei primi anni ’60, da gruppi come Beatles e Beach Boys, è con i primi anni ’70 che il rock, non più osteggiato, comincia ad essere sfruttato commercialmente e sostenuto dall’industria mainstream, perdendo i suoi connotati controculturali e configurandosi come fenomeno commerciale, non più rivolto al solo pubblico adolescenziale ma ascoltato ed apprezzato da un pubblico adulto: definizioni come Adult Oriented Rock(AOR) e soft-rock cominciano a circolare proprio in questi anni.

Il suono del rock si integra alla perfeziona in una società adulta formata dagli ex-ragazzini degli anni ’50 e ’60, una generazione cui va incontro con suoni spesso levigati e/o tradizionali: se per tutti gli anni’60 era continuata la storica tradizione del pop vocale (dai teen idols al doo wop) come alternativa al suono delle rock-band anni ’60, nel corso dei ’70 il rock diventa una colonna portante del pop, accanto a fenomeni di pop-soul e pop tout court.

Se da una parte abbiamo neo-tradizionalisti come gli Eagles, dall’altra troviamo gruppi, più o meno melodici, più o meno pop, che fanno di un suono levigato e high-tech il proprio vessillo: da gruppi più sperimentali come Electric Light Orchestra e Penguin Cafè Orchestra, a gruppi più smaccatamente commerciali quali Supertramp, Steely Dan e i Fleetwood Mac di seconda generazione (dopo l’abbandono di Peter Green).

Gli Electric Light Orchestra aggiornano la lezione dei Beatles di ”Sgt Peppers” alle atmosfere patinate degli anni’70 integrandone il pop ultra-melodico con la lezione del prog-rock e trovando la quadratura del cerchio in “Eldorado” (1974), dove il suono delle tastiere elettroniche viene accostato ad arrangiamenti orchestrali e inserito in una struttura spesso neo-classica dei pezzi.

Fantascientifici gli Alan Parson’s Project di “I Robot” (1977), con un suono che ricorda molto da vicino i Pink Floyd di “Dark Side Of The Moon” (disco in cui il leader del gruppo, il tastierista Alan Parson, compariva in veste di ingegnere del suono), che in sé incarna molti pregi e difetti del suono di certo techno-rock anni ’70 di diretta ascendenza prog: lunghe ballate, spesso strumentali, che oscillano tra l’ambient più stridente e il neo-classico più pomposo.

Altrettanto ricercati, ma caratterizzati da sonorità radicalmente diverse, i dischi della Penguin Orchestra di Simon Jeffes, con un suono cameristico screziato di jazz, affidato ad una strumentazione classica comprendente anche violoncello e clavicembalo: allo spirito solenne di molti gruppi dell’epoca essi contrappongono un atteggiamento scherzoso che pervade sia l’esordio del 1976 “Music From the Penguin Cafe” sia il seguito, nonché capolavoro del gruppo, “Penguin Cafe Orchestra”, del 1981.

Accanto a questi gruppi, relativamente colti e sperimentali nella ricerca sonora ve ne sono molti altri, più canonici, destinati ad un maggior riscontro commerciale: dalla miscela perfetta ma a tratti insipida di soul, jazz e rock proposta dagli Steely Dan di “Preztel Logic” (1974), alla seconda incarnazione dei Fleetwood Mac, quella di “Rumours” (1977), ormai depurata da qualsiasi legame col blues e autrice di un pop-rock senza infamia e senza lode ma di enorme successo commerciale; dai Supertramp, nonplusultra del gruppo pop-rock anni ’70 in “Breakfast in America” (1979), perfetta fusione tra Abba , Beatles e prog-rock, ai Toto di “Toto IV” (1982), re della power-ballad anni’80.

Esponenti del pop tout court gli Abba, il gruppo di massimo successo commerciale degli anni ’70, che aldilà della perfezione melodica (che convive con una forte attrazione per il kitsch) della lunga serie di singoli prodotti, da “Waterloo” (1974) in poi, avranno il merito di mettere sulla mappa della musica mondiale la Svezia: da lì, da meta anni’90 in poi, partirà una nuova invasione di gruppi dall’irresistibile vena melodica, quali Cardigans e Komeda, che prosegue ancora oggi, come testimoniata dallo straordinario livello qualitativo delle uscite di un’etichetta come la Labrador (Club8, Radio Dept. e Edson tra gli altri), a ribadire il ruolo della Svezia di capitale pop della penisola Scandinava.

I ’70 videro anche il successo di un pop-soul meticcio che di lì a poco sfocerà nell’urban, e che trova due campioni, diversissimi tra loro, in Michael Jackson e Prince: già in procinto di diventare l’icona pop degli anni ’80 l’ex-Jackson Five dopo una serie di deludenti prove soliste fa il botto commerciale con “Off the Wall” nel 1979, un disco di dance-pop screziato di soul e funk che presenta ancora evidenti legami col pop-soul del vecchio gruppo: produce Quincy Jones, alla console anche in quel “Thriller”, del 1982, che batterà ogni record di vendita e lancerà Jackson nell’olimpo delle pop-star.

Seminale il rock-soul meticcio di Prince, artista che ridefinisce il suono del funk e del soul per gli anni ’80 (e non solo) in una fusione spericolata tra Hendrix, Stevie Wonder e James Brown: già al secondo disco, omonimo, del 1979 cominciano brillare i primi germogli di quel suono, sexy e lascivo, che col successivo “Dirty Mind”, del 1980 trova compimento: registrato in casa e suonato completamente da solo è qui che si intravede la miscela di funk, new wave, R&B, e pop che verrà spinta alle estreme conseguenze nel disco della consacrazione: “Purple Rain” (1984). Quest’ultimo, insieme a “Sign’ o The times” (1987), costituirà un’eredità musicale enorme per gli artisti a venire, sia nella scena urban e hip hop, sia in quella elettronica che si farà sentire ben oltre gli anni ’80: si ascolti, a tal proposito, il drum’n’bass astratto e fratturato di Squarepusher, i Basement Jaxx di Rooty e l’electro-revival in salsa funk condito di gemiti femminili di Felix Da Housecat.

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