Storia della musica #18
Hard Rock
Versione anfetaminizzata del blues-rock anni ’60, il passo più veloce, se non frenetico, la voce un urlo sgraziato che esaspera lo shouting dei vocalist rhythm’n’blues neri, i riff di chitarra distorta e sferragliante al centro della scena nei lunghi assoli chitarristici che diventano presto un topos del genere, l’hard rock fin da subito si impone come un antidoto popolare contro le spinte colte del progressive.
Si è soliti attribuire ai Led Zeppelin l’invenzione del genere, anche se questo in realtà è in parte falso: se è vero che col gruppo di Plant e Page che il genere viene definitivamente codificato e diventa il genere popolarmente più affermato per tutti gli anni ’70, capace di riempire arene e stadi e di far balzare gli LP dei gruppi hard rock (primi fra tutti gli stessi Led Zeppelin) in cima alle classifiche di vendita, contrapponendone allo stesso tempo la vena sanguigna e puramente fisica alle cerebrali, elitarie sperimentazioni del progressive è pur vero che, in forme molto simili, tale suono era già presente nei dischi di altri gruppi inglesi come Who, Cream e Blue Cheer.
Fin dall’esordio omonimo del 1969 in ogni caso, anche grazie alle radici musicali folk del vocalist Robert Plant, il gruppo impose una formula, quella del disco hard rock inframmezzato da ballate folk, che diventerà un luogo comune del genere: due esempi memorabili sono “Babe I'm Gonna Leave You” nell’esordio e “Stairway to Heaven” su “IV”, capolavoro del gruppo che vede una formazione ormai matura, in cui alla matrice blues si affiancano innumerevoli altre influenze e sfumature, dalla psichedelia folk di “When The Levee Breaks” al formidabile attacco di “Black Dog”.
Il successo commerciale (e artistico) dei Led Zeppelin genera un numero impressionante di epigoni sia in patria che oltreoceano: dall’hard-boogie in salsa pop degli Status Quo, ai Free di Paul Rodgers, con un hard rock solidamente piantato nelle radici Americane, (l’avventura musicale di Rodgers proseguirà poi nei Bad Company), dalla vena romantica dei Thin Lizzy, gruppo sottovalutato che viene ricordato più che altro per il singolo “The Boys Are Back in Town” agli Slade, precursori del glam-rock, fino ad arrivare a Humble Pie e Faces, due gruppi nati dalle ceneri degli Small Faces: i Faces, in particolare, capitanati da Rod Stewart, sono autori di un trascinante hard rock dai forti connotati rhythm’n’blues.
La triade “sacra” dell’hard-rock contempla però, accanto ai Led Zeppelin, due gruppi in particolare: Deep Purple e Black Sabbath. Eccessivi e a tratti assimilabili al progressive i primi, autori nel 1972 di uno dei dischi chiave dell’hard rock, quel “Machine Head” che in sé assomma gran parte dei vizi e delle virtù del genere: se il gruppo infatti spicca per il virtuosismo dei suoi componenti, primi fra tutti il chitarrista Ritchie Blackmore e il vocalist Ian Gillan, proprio nell’ostentazione continua di tali qualità, nei duelli tra la chitarra e l’organo, negli eccessi che diventano ancor più evidenti ascoltando i live del gruppo si intravedono quelli che diventeranno i limiti del genere.
Per molti versi stilisticamente agli antipodi rispetto ai Deep Purple si collocano i Black Sabbath: dove i primi puntano pesantemente sul virtuosismo tecnico, il gruppo di Ozzy Osbourne e Tony Iommi crea un’immagine gotica e orrorifica del gruppo e gli da una veste sonora adatta: un suono di basso amplificato e distorto e chitarre sature di fuzz parente di quello già ascoltato nei dischi di Blue Cheer (non a caso con i Black Sabbath principale influenza dei futuri gruppi stoner). Con “Paranoid” (1971) i Sabbath toccano probabilmente il punto più alto della propria produzione discografica, definendo da una parte un immaginario sonoro e visivo che servirà da spunto per innumerevoli band heavy metal (in particolare black-metal e doom-metal) e allo stesso tempo rilasciando vere e proprie bombe sonore come “Iron Man”, “War Pigs” e la title-track.
La risposta Americana all’ondata hard rock inglese non tarda ad arrivare: riappropriandosi di suoni che nel nuovo continente erano nati i gruppi d’oltreoceano riconducono il blues-rock pesante nei solchi della tradizione da cui proveniva, accentuando gli elementi rhythm’n’blues e boogie, come risulta evidente ascoltando i dischi di Grandfunk Railroad, Mountain e Bachman-Turner Overdrive.
La componente boogie è ancora più accentuata nei dischi di quel sottogenere dell’hard rock che prende il nome di Southern rock: Allman Brothers, ZZ Top e Lynyrd Skynyrd, tutti gruppi che provengono dal ultra-reazionario sud degli Stati Uniti, ne sono i principali esponenti.
I primi sono i più fantasiosi del gruppo, band da live più che da studio (il disco più famoso degli Allman è il celebre “Live At Fillmore East” del 1971), eredi dei Grateful Dead nelle lunghe jam live che li vedono fondere con disinvoltura blues, country e jazz, tendenti in studio a ripiegare su un hard-blues più tradizionale e sintetico.
Fermamente piantato nelle radici il boogie dei Texani ZZ Top, gruppo che serve il miglior mazzo di canzoni nel 1973 con “Tres Hombres” e quello dei Lynyrd Skynyrd di “Second Helping”(1974), l’album della celebre “Sweet Home Alabama”, prodotto (come l’esordio, d’altra parte) da quell’Al Kooper che con Blues Project e Blood, Sweat & Tears era stato, nella seconda metà degli anni ’60, tra i principali revivalisti del blues e tra i suoi più strenui innovatori: il cerchio, in qualche modo, si chiudeva.
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