Richard Dawson - The Ruby Cord (2022)
di Marco Boscolo
The Ruby Cord è il settimo album del cantautore di Newcastle e fin dalle premesse e promesse del lancio avrebbe dovuto concludere la trilogia iniziata cinque anni fa con il salto nel Medio Evo (Peasant) e proseguita tre anni più tardi con una feroce ma ironica critica del presente (il profetico 2020). Questo terzo disco, almeno in teoria, avrebbe dovuto prendere il protagonista/voce narrante di quelle fatiche e lanciarlo 500 anni avanti nel futuro, immergendolo in una società dove le premesse postulate nei dischi precedenti avrebbero dovuto mostrare tutti i segni della decadenza definitiva. Insomma, il progetto di smantellamento della civiltà occidentale si dovrebbe qui completare, sempre a suon di canzoni bizzarre, profondamente intrise di strutture folk, ma chiaramente libere di andare in tutte le direzioni che l’autore ritenga necessarie.
Si comincia con un brano che è una dichiarazione di intenti: The Hermit, infatti, dura la bellezza di 41 minuti abbondanti e la particolare voce di Dawson non entra in scena che dopo una decina di minuti e oltre. La struttura è quella di una canzone potenzialmente infinita basata sulle radici folk: spazzole, pianoforte, arpa, voce che segue linee melodiche che si arrampicano verso il falsetto per poi precipitare nel registro grave. Se non fosse per il finale in cui appare un coro in odor di salvezza, sembrerebbe quasi un brontolio continuo del protagonista che dà il titolo al brano: un eremita (per scelta?) che vuole dire la sua sul mondo. Il problema è che non si capisce bene quello che vuole dire. Certo, ci sono le solite battute ironiche, spesso basate sui giochi di parole per mostrare significati altrimenti nascosti, ma non c’è apparentemente una vera e propria direzione verso cui andare: un po’ come se l’eremita avesse perso la bussola e vagasse nei propri pensieri, sicuro di un proprio fastidio, ma incapace di metterlo del tutto a fuoco.
Il resto del disco è più “canonico”, sempre pensando a quanto possa essere canonico un pugno di canzoni di un musicista che non ha paura di affrontare passaggi tecnicamente complessi, ma nemmeno di fallire nel tentarli. Certo, la sensazione di insoddisfazione per l’ascoltatore non viene mai del tutto superata, nemmeno nei migliori brani del lotto, a cominciare da Thicker Than Water, con il suo incedere quasi fiabesco, e Museum, che ha uno sviluppo davvero compiuto e un finale che appaga dell’ascolto.
Altre volte, come in The Fool, con le sue premesse sci-fi tradite nel resto del brano, si ha come l’impressione che le idee a Dawson non manchino, ma che non abbia quasi avuto il coraggio di portarle fino in fondo e abbia invece ripiegato sul già noto. Alla fine, l’impressione generale è che questo salto nel futuro sappia tanto di quello che abbiamo già visitato nei due viaggi precedenti. E da uno come Dawson, alla fine, ti aspetti un ulteriore scarto, ma questa volta non è del tutto riuscito.
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