Àsgeir - Time On My Hands (2022)

 di Alessandro Liccardo

Siamo stati in tanti, dapprima nella sua natìa Islanda e in seguito nel resto del mondo (in inglese, per nostra fortuna, con la preziosa complicità del nume John Grant), a lasciarci conquistare dalle atmosfere e dal delicato songwriting ora brumoso, ora contemplativo, sempre profondamente nordico, di Ásgeir Trausti Einarsson. Il ventenne di allora, già con le idee chiare sebbene con influenze forti e ben stampate sulla fronte (c’è chi lo ha subito accostato, non a torto, a Justin Vernon ma anche a James Blake), lascia spazio a un trentenne che ancora si appoggia in più momenti alla poesia del padre Einar Georg – già autore di altri suoi testi, oltre che di Arbakkinn di Olafur Arnalds – ma al contempo ha il chiaro desiderio di emanciparsi, di spiccare il volo ed esprimere in lingua inglese emozioni, incertezze e riflessioni sulla complessità delle relazioni, con un ormai distintivo e costante studio dell’estetica della parola, delle immagini che essa è in grado di sprigionare e delle libertà interpretative che può concedere. La musica è fatta dai soliti buoni ingredienti – soundscape elettronici che accompagnano chitarre folk, pianoforte e fiati pronti a intervenire per dare robustezza alle creazioni di Ásgeir – ma stavolta sembra che tutto trovi la propria collocazione naturale, che non ci sia un solo minuto sprecato, che il tempo tra le mani dell’autore sia stato impiegato per levigare, mettere a fuoco, centellinare.

Non ci si aspetti un’opera bulimica: dopo l’intervallo del breve Ep dello scorso anno (The Sky Is Painted Gray Today) arrivano dieci canzoni in un album compatto, che procede senza sbalzi o particolari intoppi, composto e suonato in buona parte in solitudine per poi affidarsi a un’equipe tutta autoctona per farne risaltare la fragranza. L’artwork racconta e introduce il mood del lavoro, con il suo gioco di ombre e di luci che illuminano parte del volto del cantautore. Se, come si diceva, Einar Georg Einarsson ancora una volta regala un vivido storytelling nella soffice title-track, nell’incisiva Borderland in cui si incontrano sintetizzatori vintage e nuovi, nella sicura highlight Giantess e nella dolente Waiting Room, nel parterre dei collaboratori che hanno contribuito alla stesura e alla realizzazione delle canzoni ci sono il fratello Þorsteinn, membro della band reggae (sì, in Islanda) Hjálmar, Júlíus Aðalsteinn Róbertsson (con il nostro già dai tempi di In The Silence) e Pétur Þór Benediktsson, già all’opera con gli Efterklang. Sempre rigorosamente made in Iceland è la sezione fiati, con Samúel Jón Samúelsson al trombone, il sassofonista jazz Óskar Guðjónsson e la tromba di Kjartan Hákonarson, che già abbiamo trovato in dischi di Maps e Sigur Rós (una curiosità: il trio proviene da una funk band, i Jaguar, che all’inizio della carriera ha attinto dal repertorio di James Brown, Herbie Hancock e Kool and the Gang).

Sebbene sia forte di un album di debutto campione di vendite in patria, Ásgeir è riuscito a non cadere nella tentazione di dipingere sempre il medesimo quadro anche se sono evidenti i colori che predilige usare. Time On My Hands vive di spazi aperti come di sguardi solitari dalla finestra, di giochi sematici e di confusioni volute (Blue come il colore dell’oceano e del cielo, ma anche “triste”), di delicatezze bucoliche e di strutture più muscolari, come quella di Snowblind che di certo suona figlia di ascolti del Caribou più recente ma che trova un terreno comune per gli a-ha e la tensione pop da serie TV dei Boxer Rebellion più ispirati. C’è persino un Peter Gabriel altezza Mercy Street che fa capolino nella già menzionata Giantess, mentre la complessità della vita di coppia si appoggia su un letto ai limiti del soul/R&B in Like I Am, con una scena sonora spaziosa da godersi in cuffia. Verso la fine del disco si ha però l’impressione che le cartucce migliori siano state già sparate: se la raffinatezza delle soluzioni non viene mai meno, c’è una sensazione di deja écouté che a un certo punto prende il sopravvento.

Quarto ed ennesimo esempio di artigianato folk-pop di qualità, con soluzioni non banali, Time On My Hands dimostra che l’artista islandese sa il fatto suo e ha lavorato di lena buona sull’affermazione di un’identità riconoscibile, anche se la strada per affrancarsi da un certo boniverismo non si è ancora del tutto conclusa.

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