Robyn Hitchcock - Shufflemania! (2022)
di Stefano Solventi
I numeri dicono che questo Shufflemania! è l’album da solista numero ventidue per Robyn Hitchcock, un bottino a cui vanno aggiunti i tre con i Soft Boys e almeno un EP, quel Planet England apparecchiato tre anni fa assieme al compagno di genialoidi bizzarrie psych Andy Partridge. Altro numero è quello che riguarda l’età: fra pochi mesi – marzo 2023 – saranno ben 70 anni dacché il menestrello di Paddington è piovuto su questa terra.
Le righe precedenti possono sembrare un incipit arido, persino iniquo per una recensione del nuovo lavoro di un musicista che da sempre si è mosso sopra, sotto e tra le righe, sostanzialmente imprendibile, obliquo alle traiettorie alternative standard e refrattario alle (f)regole del successo, lui che quanto a verve melodica ne avrebbe per sfamare airplay e playlist con regolarità. Già, perché una camicia sgargiante dopo l’altra Hitchcock ha coltivato imperterrito visioni e stravisioni nella sua bolla di vetro pressurizzata, tenendo sul massimo il manometro della passione per il rock variamente psichedelico. Particolare importante: Robyn è tutt’altro che un eremita, anzi, ti invita a entrare, con lo sguardo di un bambino che non vede l’ora di condividere i giocattoli.
Ma i numeri citati sopra sono necessari, perché restituiscono la misura di un percorso assai lungo, durante il quale il senso stesso del fare rock – e questo tipo di rock in particolare – è cambiato in molti modi, tanto che l’unico garante della sua forza, ovvero della possibilità stessa che continui ad avere senso, è che abbia senso innanzitutto per chi lo fa. E da questo punto di vista con Mr. Hitchcock possiamo stare tranquilli. È vero che se scorri i credits dell’album potresti aspettarti qualche concessione a riti autoreferenziali e autocelebrativi, viste le ospitate di rilievo come Johnny Marr, Brendan Benson, Sean Ono Lennon, Emma Swift (che co-produce il disco) e Pat Sansone. Ma basta un primo ascolto per appurare come tutti si siano accomodati nella suddetta bolla di vetro per mettersi al servizio di uno stesso rapimento, lasciando fuori calcoli, convenienze, provenienze e insomma tutto quel surplus di ego che in genere caratterizza il rito sempre più convenzionale del featuring.
C’è un filo sottile, vibrante e impalpabile che unisce l’uomo che ieri sognava spesso i treni a quello che oggi ama la pioggia, ma c’è e puoi scorgerlo appunto nella splendida ballad The Man Who Loves The Rain, uno di quei miraggi accorati e tremuli che un tempo uscivano così bene dalla penna di Billy Corgan: canzone che racconta quella stessa angolazione contemplativa, quella stessa predisposizione all’incantesimo misterioso della realtà, su cui spiove oggi una luce più ferma, certo, ma non meno palpitante, in bilico su una soglia («Respect the dead / You will be joining them soon») che significa innanzitutto rivelazione. La cassetta degli attrezzi prevede chitarre elettriche e acustiche, organi e tastiere, un bel corredo di percussioni, la verve del blues e le trame del folk, il tutto a bagno in un brodo acidulo ma garbato, accogliente, dal sorriso caldo come uno stregatto che ha imparato a modulare mosse e intensità della follia. Ecco, il Robyn Hitchcock del 2022: un vecchio gatto dal passo più accorto ma dalla follia intatta.
Il piglio da sabba elettrico forsennato della opening The Shuffle Man sembra un modo per rimarcare la soglia d’ingresso, per mettere sul collo dell’ascoltatore il fiato di un trickster che nel resto del programma sarà guida, ombra e chiave di lettura («I sit out the window / I sit out the law / I’m gonna see what the Shuffle Man saw»). Già la successiva The Inner Life Of Scorpio collassa però in territorio ballata, muovendosi sorniona e radiosa in un bozzolo fragrante di chitarre, piano, archi e tastiere (Marr sugli scudi), in sella a una melodia che affiora e s’immerge tra grazia e inquietudine, come di fronte alla pelle levigata di un mistero. Proprio questa allusione al mistero, ai molti modi in cui la realtà si manifesta come il velo che copre qualcos’altro, è elemento ricorrente, spunta tra desolazioni (la grana blues abbacinata di Midnight Tram To Nowhere) e implosioni esistenziali (la bossa vischiosa di Noirer Than Noir), in certe fughe enigmatiche nel rovello cupo delle emozioni (una The Raging Muse che sembra provenire dal Bowie angoloso e bruciacchiato altezza Scary Monsters).
Malgrado l’inevitabile patina del mestiere, della calligrafia che tende a replicare se stessa, Hitchcock conserva la capacità di far risuonare l’oscuro nello scintillante, l’insolito nel confortevole, l’indecifrabile nel limpido. Se col tempo ha perduto qualcosa in abrasività, dirompenza e slogatura visionaria, è perché questa è una moneta che si deve spendere per fare i conti col tempo, così da poter raffinare la penna e rendere indistinguibile il docile dall’indocile, diluendo gocce di veleno nella calligrafia fin quasi a non sentirne più il sapore (ma gli effetti, invece, sì). Ecco perché può permettersi una Socrates In The Air che rimanda al George Harrison più brioso mentre si permette di imbastire una critica pungente allo stupidario ipercinetico contemporaneo («He was a little ship of wisdom / On a lake of instant fools»), o di echeggiare utopie lennoniane tra fatamorgane sospese in quella One Day che vede appunto il figlio di Lennon ospite e stregone sonoro («One day / The colour of your skin won’t be the great divide / And one day / you’ll care how other people feel inside»).
Shufflemania! non è quindi solo un disco che non delude, non è il classico lavoro che incrementa dignitosamente il numero di titoli nel repertorio di un quasi settantenne da cui, beh, non ti aspetti più granché. No: suona come dovrebbe suonare l’album di chi non ha smesso di sognare treni, di amare la pioggia, di inseguire pesci fantasma e scrutare nella pancia segreta degli scorpioni. Non è poco.
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