Jeff Buckley - Grace (1994)
Per la leggenda basta a volte un unico, grande, disco. Questo sarà il filo rosso delle storie di musica del mese di Giugno. In inglese vengono chiamati “one wonder” e sono legati a momenti creativi particolari, ad esordi clamorosi, a dischi di fuoriusciti da band che non hanno più avuto seguito, per i motivi più vari. Quello che impedì a Jeff Buckley di continuare la sua carriera dopo la folgorazione dell’esordio fu un beffardo e tragico destino di morte: infatti stava lavorando al suo secondo quando, in circostanze romanzesche, annega durante una nuotata in un fiume, un affluente del fiume Mississippi, nel maggio del 1997. Aveva solo 31 anni, e il destino ha legato la sua morte giovane e tragica a quella del padre, Tim, morto a 28 anni. Buckley aveva un grande dono: era davvero innamorato della musica, in senso generale. Quando giovanissimo si trasferì a Los Angeles, affiancò al suo impiego come cameriere quello di chitarrista in un piccolo circuito di locali, dove alternava tutti i generi, dal rock al jazz, persino partiture da lui “tradotte” per la chitarra di grandi maestri di musica classica. Nel 1991 a New York, durante un concerto in memoria del padre, conosce e suona con un chitarrista, Gary Lucas, che diviene il suo braccio destro. Lucas lo accompagna nei locali di Manhattan, soprattutto il Sin-è, dove si esibisce per un anno ogni lunedi sera. Quei lunedi sono ricordati per performance incredibili, che spaziano dai blues di Robert Johnson alla musica pakistana di Nusrat Fateh Ali Khan, dal jazz di Ella Fitzgerald a incursioni punk dei Bad Brains, da Van Morrison, Dylan e Cohen ai cantautori francesi. Il tutto condito dalla sua voce incredibilmente versatile, che si adatta e forma tutte le canzoni in un modo pazzesco e inconfondibile (un piccolo assaggio si trova nell’EP Live At Sin-è del 1993). Si inizia a spargere la voce che a New York ci sia la nuova sensazione della musica americana, file di limousine con produttori e pezzi grossi delle case discografiche prenotano tavoli nel piccolo locale dell’East Village. Buckley firma un contratto per la Columbia per tre dischi, milionario. Prodotto con il fido Andy Wallace (il produttore del momento, che aveva messo le mani su Nervermind dei Nirvana) Grace esce nell’agosto del 1994, ed è uno dei più grandi album del decennio. Ricco di sfumature, psichedelica, richiami hard rock, tutti rielaborati dalla visionaria passione di Jeff, che ha una voce meravigliosa, angelica e drammatica, usata come uno strumento aggiunto. Aiutato in studio da una band stratosferica, tra cui si ricordano Karl Berger (agli archi), Mick Grøndahl (basso), Matt Johnson (batteria e percussioni) e i fidi Lucas (che sarà coautore di molti brani) e Michael Tighe, l’album si apre con il sussurro di Mojo Pin che poi diviene un urlo soffocato, un sogno mistico e bizzarro su una donna afroamericana, un brivido di una necessità, come lo stesso Buckley la ricorderà; Grace, canzone della vita, è magica, e fu scritta da Jeff dopo aver ascoltato un demo di Lucas pensando al momento in cui, in una “cinematografica” giornata di pioggia, dice alla sua fidanzata che la sta lasciando; The Last Goodbye, dal ritmo possente e dalle dinamiche più melodiche, rimane sullo stesso bordo di sofferenza, di nostalgia e di atmosfere dolorose. Lilac Wine è il momento visionario, omaggio alla amatissima Nina Simone che portò al successo il brano, di James Shelton, nel 1963. Lover You Should’ve Come Over è straziante e magnifica, dall’epica meravigliosa; Corpus Christi Carol è una poesia medioevale musicata, rarefatta e mistica, uno sprazzo di canto religioso in una cattedrale. Eternal Life, dal piglio deciso, è una delle prime composizioni in assoluto di Buckley e Lucas, una canzone sulla rabbia, “la vita è troppo breve e troppo complicata perché le persone dietro le scrivanie e le persone dietro le maschere rovinino la vita di altre persone, usino la forza contro la vita di altre persone, sulla base del loro reddito, del loro colore, della loro classe, delle loro credenze religiose, del loro qualunque cosa... (dall’introduzione del brano ne Live At Sin-è). Dream Brother è invece dedicata ad un cantante, Chris Dowd dei Fishbone, nella cui vicenda tribolata Jeff vedeva similitudini con quella del padre Tim. Ma l’apoteosi è la cover di Hallelujah di Leonard Cohen, spogliata dell’erotismo del canadese, e trasformata in una preghiera in musica indimenticabile: rimane una delle cover più straordinarie di tutti i tempi, ed è al primo posto nella mia personale classifica delle canzoni usate nelle funzioni ai Matrimoni ma che non c’entrano nulla. Nella versione anniversario del 2007 c’è un’altra perla, Forget Her, canzone dedicata da Jeff ad un amore giovanile, che per pudore non fu inserita nella prima versione del disco, preferita da So Real. Profetizza anche un annegamento. Disco eccezionale di un artista che avrebbe potuto dare tantissimo, amato sin da subito da giganti come Jimmy Page e Robert Plant (che furono uno dei pilastri ispiratori di Buckley), Bob Dylan, che lo indicò come uno dei più grandi artisti in circolazione, e che è ricordato alla perfezione da un altro suo illustre collega così: Jeff Buckley era una goccia pura in un oceano di rumore (Bono).
Commenti
Posta un commento