I Don’t Know For Sure - Hüsker Dü

 di Andrea Pomini

Ne abbiamo fatte di cose insieme, io e mio padre.

L’ultima forse in cui è stato davvero evidente il mio essere figlio e il suo essere padre l’abbiamo fatta il 16 giugno del 1987.

(Non è vero, giusto qualche giorno prima del lockdown è venuto qui con stucco e vernice a tappare dei buchi fatti da me col trapano nel posto sbagliato. Cioè io che tentavo di fare il padre, perché nel frattempo ho anche avuto due figli, e invece restavo tragicamente figlio).

Il 16 giugno del 1987, qualcuno se lo ricorderà, è la data di uno degli unici due concerti fatti in Italia dagli Hüsker Dü, trio punk statunitense in quel momento all’apice della sua carriera, in procinto di diventare un caposaldo della musica alternativa tout court.

Io adoro gli Hüsker Dü, ho tutti i loro dischi e li conosco praticamente a memoria.

All’epoca i soldi sono pochi e di album se ne compra uno al mese, insieme alle cassette vergini per registrare quello che si sono comprati i due o tre outsider che condividono la passione per queste musiche sconosciute (da sempre il peggiore insulto al quale gli altri possano pensare: “Li ascolti solo tu, non li conosce nessuno”).
Ma il concerto è a Torino, presso il semi-leggendario Big Club di corso Brescia. Io invece ho 15 anni e mezzo e abito a Pinerolo, in provincia. Provincia di Torino, il che in questo caso fa di me un privilegiato rispetto a un analogo me residente più lontano. Ma ho pur sempre 15 anni e mezzo, e nessun amico con la macchina. Fermo restando che comunque da solo, a Torino, a un concerto punk, insieme ad amici più grandi con la macchina non sono sicuro di poterci andare comunque.

Che si fa?

Si fa che ci porta mio padre, a me e ai miei due amici quindicenni come me. Ma ci porta non nel senso che ci accompagna in macchina a Torino, ci molla al concerto e si fa trovare fuori dal locale due orette più tardi, dopo un cinema o un gelato. No, quella fase arriverà più avanti. Ci porta nel senso che ci accompagna in macchina a Torino e nel locale entra pure lui, che a quanto ne so non ha mai ascoltato musica da vero appassionato – in casa gira qualche cassetta, i primi vinili sarò io a comprarli – in generale, figuriamoci il punk di Minneapolis di metà anni Ottanta. Siamo piccoli, è la prima volta che veniamo a Torino a vedere un concerto nostro, è un concerto dove la gente si agita e poga, è pericoloso.

Quindi entriamo tutti e quattro al Big, io vestito come i punk che avevo visto nelle foto dei dischi: jeans tagliati al ginocchio e scarpe da basket, maglietta di non ricordo che gruppo e camicia a scacchi, la divisa del punk hardcore americano classico. Il locale ha un ampia pista di fronte al palco e quindi, più indietro, delle gradinate con file di sedie. Noi entriamo e ci sediamo, riuscendo a spuntare con mio papà una prima fila dalla quale osserviamo rapiti sia il gruppo (meraviglioso: la scaletta di Warehouse: Songs And Stories pari pari fino a Too Much Spice per cominciare, Grant Hart che sempra sempre sul punto di rotolare giù con la sua batteria, il sudore che cola a fiumi giù dal polso sinistro di Greg Norton mentre regge il manico del basso, la chitarra a V di Bob Mould), sia la bolgia che gli si scatena di fronte non appena inizia a suonare.

A un certo punto la gente si alza anche in zona sedie, noi compresi e mio papà naturalmente escluso. Visto lo spazio, un paio di tipi salgono il gradino e gli chiedono se possono piazzarsi lì davanti a lui, di fatto ostruendogli completamente la visuale. Lui, non esattamente un tipo disinvolto, forse sorpreso da tanta cortesia dove meno ce la si poteva aspettare, dice che non c’è problema, e passa il resto del concerto con il naso a tre centimetri dal culo di un ragazzo in piedi di fronte a lui, senza vedere il palco ma assordato come tutti noi dal muro di rumore e melodia degli Hüsker Dü. Che lui, per inciso, ha sempre chiamato Ùscar Dù prima, durante e dopo il concerto.

Anche dopo, esatto, perché uno a questo punto sarebbe autorizzato a pensare che, appena usciti da lì, il suo primo e più impellente bisogno fosse quello di togliersi dalla mente tutto quel bailamme di distorsione e velocità, e di scordare il 16 giugno 1987 il più in fretta possibile. Invece, più o meno finché ho abitato insieme a lui e a mia mamma (quindi per altri 12 anni buoni), ha continuato a riconoscere gli Hüsker Dü ogni singola volta che li ha sentiti tuonare dalla mia cameretta. “Questi sono gli Ùscar Dù vero?”, e ci prendeva sempre. Sottolineando come nella loro musica ci fosse sì tanto rumore, ma anche tanta melodia, e col tempo quasi vantandosi scherzosamente di questo suo orecchio fino. Idem quando invece orecchiava cose provenienti dallo stesso mondo ma diverse; ricordo ad esempio una volta che ascoltavo, mi pare, Confusion Is Sex dei Sonic Youth: “Questi non sono gli Ùscar Dù, non c’è melodia, non mi piacciono, gli Ùscar Dù sì che sono un gruppo”. Mentre la storia di Mario al concerto degli Hüsker Dü diventava una piccola leggenda famigliare da pranzo di Natale.

Da un paio d’anni sono finito ad abitarci praticamente di fronte, al Big Club di corso Brescia, e in rete da qualche tempo c’è la registrazione integrale di quel concerto.

Ieri invece mio padre è morto. Ci mancherà.

“Can’t tell you what’s coming next, I don’t know for sure”.

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