Willie The Pimp - Frank Zappa

di Salvatore D’Amato

Quando ascoltai quel riff eseguito da un violino svettante all’ inizio del pezzo mi trovavo nei corridoi del liceo, alcuni decenni fa. Con la scusa di andare in bagno, mi sedevo sulla base delle colonne che reggevano l’istituto e me ne stavo ad ascoltare musica da un mini registratore a cassette; quel giorno era il momento di una compilation realizzata da un cugino di mia madre che è stato indiscutibilmente uno dei miei mentori, l’indimenticabile Tullio Della Croce. Le orecchie si drizzarono immediatamente e mentre lo spazio sonoro era occupato da una voce cavernosa e rugginosa che cantava alcune strofe la mia attenzione era già ai massimi livelli: il successivo assolo di chitarra (lunghissimo e meraviglioso, oggi lo affermo; quello che preferisco nell’intera storia del rock)mi mise davvero ko. Non ne avevo mai sentito uno del genere prima: era coinvolgente, intenso e profondo, una vera e propria colata lavica che si abbatteva sul mio udito e apriva letteralmente un mondo davanti all’ adolescente occhialuto che lo ascoltava. Al termine dell’assolo (e del brano) mi sembrava di possedere tutta l’energia e la forza che mancavano al timido adolescente in questione ; avrei potuto fermare tutte le studentesse che più mi piacevano in quel consesso e chiederle di uscire con me, avrei potuto affrontare i diciottenni del liceo più antipatici ed odiosi ed intimargli a brutto muso di smetterla di vessare i tredicenni ginnasiali quando li incrociavano nei bagni della scuola, avrei potuto dire ai miei compagni di classe, i quali a scuola perseguivano in netta maggioranza l’unico scopo di studiare forsennatamente, prendere bei voti e mettersi in mostra con i professori, che il contatto umano tra noi era stato assai carente ed io soffrivo assai una simile situazione.

Nell’immediato, comunque, tornai in classe, guardai l’insegnante di matematica negli occhi e la informai che mi doleva fortemente la testa per cui preferivo tornare a casa, situata ad un km di distanza. Mancavano trenta minuti al termine delle lezioni, la richiesta era sicuramente insolita ma lei acconsentì: del resto, l’avevo formulata con tale nettezza, guardando dritto negli occhi la mia interlocutrice, che difficilmente avrei potuto ottenere un rifiuto. Mentre mi incamminavo (non verso casa, volevo solo vagare senza meta fino a quando non avrei messo un punto e a capo a tutti i pensieri che mi frullavano per la testa in quel momento) pensai che una simile nettezza non mi apparteneva, che l’energia e la forza di quel brano mi avevano semisconvolto letteralmente, che il suo autore era entrato nella mia esistenza spalancando letteralmente la porta della mia anima. Nelle ore ed i giorni successivi il brano non lo volevo risentire: su di me aveva avuto l’effetto di una droga, dunque si trattava di una materia da maneggiare con cura, un tizzone ardente che avrebbe potuto brucia re al contatto, una bestia feroce che era meglio non stuzzicare per evitarne la furia belluina. La riaffrontai, per dir così, dopo un paio di settimane, quindici giorni in cui l’avevo evitata, ma anche desiderata ed agognata con tutto me stesso: mi trovavo sulla poltrona con le cuffie accanto all’impianto stereo ed al termine dell’ascolto decisi subito di andare ad acquistare il trentatrè giri che conteneva una simile meraviglia, disco chiamato “Hot Rats” il cui secondo pezzo era, per l’appunto, quella “Willie the pimp” che un simile effetto aveva prodotto sul sottoscritto ed era stata realizzata dal titolare del disco stesso, tale Frank Zappa...

Naturalmente, nel corso degli anni, dopo il piccolo big-bang innescato su un sedicenne da nove minuti di suono, potevo focalizzare nel dettaglio il piccolo universo scaturito da quell’esplosione sonora: il violino che scandiva il riff era suonato da un afroamericano chiamato Don “Sugarcane” Harris, tra i massimi specialisti dello strumento tra gli afroamericani stessi, appena uscito di prigione dove era detenuto per spaccio di droga (Frank Zappa pagò la cauzione); la voce cavernosa e rugginosa era quela di Don Van Vliet, già noto all’epoca con lo pseudonimo di Captain Beefheart, un uomo che sarebbe passato alla storia quale uno degli artisti più irregolari e geniali nella storia del rock: il testo brevissimo che scaturiva dalle sue corde vocali descriveva uno squallido magnaccia di nome Willie, con i suoi capelli unti, i suoi pantaloni color kaki, le sue ragazzine che si offrivano per venti dollari sui marciapiedi o nell’albergo in cui risiedeva il Nostro (con perfetta scelta dei tempi, mentre usciva il disco che conteneva questa storia, il gruppo di femministe radicali Redstockings, capitanato dalla scrittrice Kate Millett, lanciava il suo manifesto radicale a New York).

Ed infine quell’assolo di chitarra così abrasivo, poderoso e squassante era realizzato dal titolare dell’album, il capellone di 29 anni con i baffoni neri che mi fissava in un bellissimo scatto all’interno dell’album medesimo (ed in tal caso il tumulto di quella sei corde evocava e rimandava il tumulto della società statunitense in quel periodo, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam terminate in alcuni casi anche con alcune vittime tra i manifestanti suddetti, gli afroamericani che, dopo il diritto di voto, chiedevano un’estensione quasi totale dei loro diritti sociali complessivi, e si organizzavano nella maniera più eclatante attraverso il partito delle Pantere Nere, gli attentati organizzati contro le strutture del potere costituito dal gruppo armato dei Weathermen, costituito dall’ala più radicale del movimento studentesco). Scoprivo tali dettagli esplorando nel contempo tutta la musica di Frank, abbeverandomi e beandomi di quel caleidoscopio sonoro che abbracciava tutti i generi, e li soffocava al contempo nell’abbraccio frantumandoli e piegandoli alla mente fervida e creativa del suo compositore. In parallelo ala scoperta, piansi letteralmente nel maledetto millenovecentonovantatre quando scomparve troppo presto, con il rammarico di non averlo mai visto suonare dal vivo, ma con la consapevolezza attuale che l’ascolto della sua musica ha contribuito, senza se e senza ma, a rendermi la persona che sono oggi, con tutti i suoi pregi e difetti. Un cammino cominciato sulle colonne del Liceo classico Pansini, quella mattina di tanti anni fa!

Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più