Bruce Springsteen – Only the Strong Survive (2022)

di Alberto Calandriello

C’è un motivo principale per cui alle soglie dei 50 anni ho deciso di iscrivermi in palestra, 25 anni abbondanti dopo l’ultima volta in cui ci misi piede; un motivo che conta più del necessario dimagrimento e della volontà di rimettermi in forma. Il motivo è la doccia calda dopo l’allenamento. Non per motivi igienici eh, ho il vizio di lavarmi spesso, anche a casa, per carità. Il motivo è che quando entro in doccia dopo aver sudato l’impossibile, la sensazione che l’acqua mi lavi via sudore e soprattutto malumori assortiti è assolutamente impagabile; sto lì qualche minuto, che mi basta per spazzare via le tensioni e le preoccupazioni della giornata lavorativa ed esco dalla palestra stanco morto, ma sereno.

La musica soul mi fa lo stesso effetto. Ogni volta che ascolto uno qualunque dei tanti capolavori di questo genere musicale, arrivo al termine del disco che mi sento meglio, rilassato, a volte addirittura felice. Una sorta di allenamento dell’anima, che poi si conclude con un’onda positiva, che rende te stesso più pulito. Credo dipenda dalla massiccia presenza degli strumenti a fiato, che mi fanno pensare ad un soffio di vento, che con dolcezza e determinazione mi entri dentro e dia una rinfrescata al mio umore.

La notizia che Bruce Springsteen dedicasse un intero album (o è solo il volume 1?) alla sua riconosciuta passione per la musica soul è stata quindi per me una sorpresa emozionante, superata poi dalla scoperta che la scaletta fosse decisamente lontana dalle mie previsioni.

Un disco, forse addirittura doppio, di cover soul, Bruce lo avrebbe avuto già pronto, gli sarebbe bastato raccogliere le varie canzoni riproposte in 50 anni di carriera e al massimo re-inciderle, ci sarebbero stati i classici come Raise your hand (già presente nel Live 75-85), Quarter to three o Higher and Higher, qualche chicca degli esordi come When you walk in the room di Jackie DeShannon o Then he kissed me delle Crystals; senza dimenticare che lui e Little Steven decisero ad un certo punto di “salvare” la carriera di un loro eroe (Gary US Bonds) scrivendogli un paio di dischi (Dedication e On the line).

Insomma, è innegabile che l’amore di Bruce per il soul e la black music in generale faccia parte della sua carriera sin dall’inizio, ma Only the strong survive va oltre all’idea di mero tributo e si presenta invece come una fantastica dichiarazione d’amore a tutta una generazione di musicisti, ad un’epoca irripetibile e a un’idea di arte ben precisa. Amarcord e nostalgia ovviamente, una sorta di ringraziamento per essere stata ispirazione ed esempio, un album che trasuda rispetto e riconoscenza per ognuno degli artisti coinvolti, ma non solo per loro.

Ben sapendo l’amore che Bruce ha da sempre per la Motown e il famigerato Wall of sound Spectoriano, mentre ascolto mi sembra di essere accanto a lui, quando viveva in uno dei tanti alloggi di fortuna, con questa musica ad alto volume per tutta la notte e di fianco al letto un blocco per gli appunti, con dentro canzoni che sarebbero diventate Born to run; oppure mi torna in mente il video amatoriale di qualche anno fa, che lo vede ballare Mustang Sally con sua mamma Adele in un piccolo locale del New Jersey; penso all’intervista dove spiegò che sua madre fosse affetta dall’Alzheimer e presente a sé stessa solo quando sente la musica ed allora mi immagino questo come uno dei suoi ultimi regali per lei o magari come terapia preventiva per sé stesso.

La chiave di lettura, dopo i primi ascolti, l’ho trovata nelle prime due canzoni, in due momenti precisi che in qualche modo tracciano la rotta per questi 50 minuti abbondanti. L’inizio del disco, la title track, quella batteria che chiama il tempo, l’organo che traccia la melodia e le voci femminili che ripetono I remember, mi ricordo (a m’arcord, per dirla come nella città più springsteeniana d’Italia, Rimini); entra Bruce e racconta del suo primo appuntamento, trattenendo a stento una risatina ed immergendosi completamente nell’atmosfera del brano.

Nella seconda canzone, Soul Days, Bruce esce dai binari del testo e dialogando a distanza col vecchio amico Sam Moore dice “voglio ascoltare un po’ di Wilson Pickett e di Joe Tex, voglio ascoltare qualcosa di Sam and Dave” (quelli di Soul man).

Memoria e proposta, ecco i punti cardinali di questo album di cover, scelta comune a molti, a volte criticata poiché dimostrerebbe (a chi?) una mancanza di ispirazione dell’artista, mentre spesso si rivela preziosa per capire meglio le radici dell’artista stesso, specialmente dei veterani (vedere alla voce Blue and Lonesome dei Rolling Stones).

La black music porta da sempre con sé un senso di fratellanza, di comunità e di unione, il soul ne è un esempio chiaro, anche nel citare altri artisti nei propri pezzi per ringraziarli, come fanno i Commodores in Nightshift, dove Marvin (Gaye) e Jackie (Wilson) sono i protagonisti e le loro canzoni riprese per celebrarle (What’s going on e Higher and higher); lo stesso Marvin Gaye poi è stato simbolo di questa desiderata fratellanza, con quel pilastro della musica contemporanea dal titolo appunto What’s going on e quella strofa War is not the answer che dal Vietnam ci arriva oggi ancora dannatamente e tragicamente attuale.

Non è un caso a mio avviso che Bruce scelga di fare un disco del genere, che chi lo segue sa da anni essere “nelle sue corde”, proprio in questo periodo storico; non come semplice riempitivo, forse come divertissment scevro da tensioni che gli permetta di concentrarsi sul cantato, ma anche e per me soprattutto come messaggio indiretto, come invito a guardare al soul come esempio di unità ed armonia, come messaggio di pace e fratellanza. Tra guerre in escalation e pandemie che ci tengono distanti, il soul ci avvicina, ci spinge gli uni tra le braccia degli altri.

Certo, i brani sono in maggior parte canzoni d’amore e spesso canzoni d’amore tristi se non drammatiche, ma la sensazione che mi lascia ad ogni ascolto, mentre sfuma Someday we’ll be together è di serenità, pur nella consapevolezza che quello che ho stampato in faccia sia un sorriso decisamente nostalgico. Del resto, da anni ci ripetiamo tra appassionati di musica la frase di Tom Waits amo le bellissime melodie che mi raccontano cose terribili; era successo, restando a Bruce, con le Seeger Sessions, dove la protesta e la denuncia venivano accompagnate da ritmi incalzanti, oppure nei suoi stessi dischi (pensiamo alla traduzione di Working on the highway e al suo incedere rockabilly).

Canzoni di amori tristi e falliti, canzoni dove si ha paura che il sole non splenderà più o dove si desidera la pioggia per nascondere le lacrime (in Italia si diceva c’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo), ma sempre con la musica che ci spinge oltre la tristezza; durante Don’t play that song il protagonista dice proprio non mi interessa se mi hai mentito, balliamo! In Soul days poi Bruce ci spiega ancora meglio il perché di questo album, con le parole di Dobie Gray: “Ho trovato la mia maglietta preferita, ho iniziato ad arrotolare le maniche proprio come faceva James Dean, pensando di essere ancora diciassettenne“.

Dobie Gray, che Dio lo abbia in gloria, è colui che anni fa incise sul marmo una delle strofe più belle della storia e quella che ancora oggi resta insostituibile per descrivere cosa io provi verso la musica e i musicisti: Grazie per la gioia che mi avete dato, voglio che sappiate che credo nella vostra canzone, nel ritmo, nella strofa e nell’armonia. Mi avete aiutato ad andare avanti, rendendomi forte. Datemi il vostro ritmo, ragazzi, e liberate la mia anima, voglio perdermi nel vostro rock ‘n’ roll e andare alla deriva. La canzone è Drift away, ossia il sogno impossibile di generazioni di springsteeniani che ricordano bene quella versione con Little Steven alla seconda voce, in uno dei suoi primi ritorni sul palco della E Street Band dopo esserne uscito; pur avendo inutilmente cullato il desiderio che Bruce la incidesse per il nuovo album, non riesco a non leggere quelle parole come manifesto programmatico di quando era giovane, selvaggio, innocente ma soprattutto smanioso di diventare un musicista affermato. (Nel periodo, spero concluso, dello “spazio richieste”, in un concerto americano un fan la chiese scrivendo su un cartello darei il testicolo destro per ascoltarla, Bruce la suonò, ma non è dato sapere se pretese la “ricompensa”).

Se la scelta delle canzoni non è scontata, alcuni interpreti è doveroso citarli: prima fra tutti Jackie Shane (di cui è riproposta Any other way). Fu una delle prime performer transgender della storia della musica afroamericana. Nata a Nashville cominciò ad andare a scuola in abiti femminili a 13 anni con l’appoggio incondizionato della madre che ha sempre accettato il fatto che suo figlio fosse in tutto e per tutto una bambina. Nel Tennessee dei primi anni cinquanta questo non era un dettaglio da poco.

Oppure la storia incredibile di William Bell, amico fraterno di Otis Redding, che avrebbe dovuto salire sul suo stesso aereo il 10 dicembre 1967, ma che a causa di una nevicata a Chicago, che fece annullare il suo show, si salvò la vita.

Storie drammatiche, come quella di Rodger Penzabene, autore del testo di I wish it would rain, nel quale racconta il dolore provato alla scoperta del tradimento della moglie, che lo portò al suicidio pochi mesi dopo la pubblicazione del singolo dei Temptations.

Un disco che porta con sé, come ho detto, anche la proposta di riscoprire questa epoca lontana e alcuni dei suoi protagonisti, magari quelli non rimasti negli annali. Ad esempio Jimmy Ruffin, un cantante che stava per entrare nei Temptations, poi partì militare ed al ritorno si vide fregare il posto da suo fratello David; come dire che la carriera militare e quella musicale, Elvis insegna, non vadano per nulla d’accordo.

Il disco scorre fluido e godibilissimo, Bruce canta senza particolari pressioni, prima fra tutte quella dell’inevitabile paragone con le versioni originali; non credo sia questo il criterio di lettura corretto per l’album, almeno a me non interessa, perché preferisco leggerlo come un omaggio da parte di chi principalmente è stato fan dei musicisti di cui canta i pezzi, un fan che grazie anche a questi brani e a questo genere, ha alle spalle 50 anni di carriera e come pochi altri oggi (quasi tutti suoi coetanei se non più vecchi) può scegliere di muoversi a piacimento in studio di registrazione.

È però giusto sottolineare la fedeltà al suono e agli arrangiamenti originali, con una citazione per il funky di 7 rooms of gloom dei Four Tops, con la chitarra che graffia con cattiveria.

Un disco che mi sembra anche un omaggio alla memoria di Clarence Clemons, anima black della E Street Band, che per anni ha racchiuso nel suo enorme sassofono dorato tutto il soul che Bruce voleva mettere nelle canzoni, in un periodo dove la comunità nera non era particolarmente attenta ai suoi dischi (ad un concerto di Bruce c’è più gente di colore sul palco che sotto, si diceva).

Ho un libro fotografico di Eric Meola, dedicato alle sessions per la copertina di Born to Run, dove c’è uno scatto che raffigura Bruce letteralmente sollevato da Big Man, come se da quell’altezza potesse guardare oltre all’orizzonte.

Come se, grazie al suo amico sassofonista, riuscisse già da allora a vedere questo mondo così lontano da quello di un ragazzetto bianco, che da sempre ne è innamorato.

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