Bill Callahan - Ytilaer (2022)
di Alberto Campo
A 56 anni compiuti e avendo alle spalle oltre tre decenni di attività, nell’ottavo album a suo nome, dopo l’abbondante decina realizzata sotto la dicitura Smog, Bill Callahan raffigura – suggerisce il titolo – la realtà al contrario.
Probabile sia una rifrazione del trauma causato dalla pandemia, tanto più considerando il movente da lui premesso: “Mi sembrava fosse necessario risvegliare le persone, volevo suoni e parole empatici”. Affermazione sorprendente in bocca a chi era considerato misantropo, benché poi ravveduto sull’onda della paternità, come avevano dimostrato i due dischi precedenti, Shepherd in a Sheepskin Vest (2019) e Gold Record (2020), insieme ai quali YTILAER compone una sorta di trilogia.
Con voce baritonale, versi immaginifici e guizzi di humour (folgorante quello in “Everyway”: “Sento che sta arrivando qualcosa, una malattia o una canzone”) offre uno sguardo sull’esistenza in cui al disincanto subentra la compassione. Esordisce, in “First Bird”, parlando di visioni oniriche (che “sono pensieri di loto e catene”) e rivelandone in seguito la natura: “Ora mi rendo conto che i sogni sono reali”. Accade durante “Coyotes”, limpida ballata – modello Neil Young, epoca Harvest – che allude alla reincarnazione (“Nei sogni è un coyote, ciò che ovviamente lei era”), per quanto sia in definitiva una dichiarazione d’amore: “Ecco come e perché ti amo adesso, ti ho sempre amata e ti amerò per sempre”.
Se in quel caso interlocutrice è la compagna Hanly Banks, fotografa e filmmaker, nell’elegiaca “Lily” si rivolge invece alla madre scomparsa: “Ho cominciato a scrivere la tua canzone funebre molto prima che te ne andassi”. L’abituale qualità letteraria dei testi si palesa eloquentemente nell’ambientazione noir di “Naked Souls”, dove “l’uomo che non può sopportare le anime nude (…) forse comprerà un’altra pistola, forse diventerà poliziotto o ucciderà qualcuno”, braccato tuttavia da chi lo descrive: “Là in autostrada, scivolo dietro di te come un alligatore nella palude”.
Al solito, la musica scorre nel solco della Tradizione Americana, in particolare quando riaffiora “Bowedil”, standard blues rabbuiato alla maniera di Nick Cave, violandone però a tratti gli schemi con scarabocchi “free” che ricordano Tim Buckley o il Van Morrison delle “settimane astrali”, ad esempio in “Planets” (con supplemento esotico in lingua hawaiana: “Kilakila Malu”, ossia il Posto delle Ombre) e “Partition”.
A ciò corrisponde un’orchestrazione più opulenta che in passato: accanto a chitarra acustica ed elettrica, basso e batteria, si ascoltano tromba, clarinetto, organo Hammond, pianoforte e sintetizzatore, oltre al ricorrente controcanto di un coro femminile. Se ne percepisce l’effetto in “Natural Information”, episodio disinvolto nell’andatura ma severo nel contenuto: “Due milioni di anni di dati e gli esseri umani sono ancora in modalità beta”.
Sarà per questa ragione che di recente Callahan si è dileguato dai social network: “Una delle cose migliori che io abbia mai fatto, per me e probabilmente per il mondo”, ha confidato a “Uncut”.
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