Storia della musica #15

I cantautori di fine anni ’60

Tra le tante rivoluzioni musicali messe in atto da Bob Dylan ( e più in generale dal movimento del Greenwich Village) durante gli anni ’60 c’è la creazione di uno di stile cantautoriale in cui musica e testi acquistano pari dignità: non-genere che si diffonde a macchia d’olio, rendendo necessaria una rapida escursione in giro per la mappa Americana ( e Inglese) di fine decennio alla ricerca dei suoi eredi.

Punto di partenza non può che essere proprio il Greenwich Village: lì si esibiva Laura Nyro, personificazione del melting-pot cittadino con un incredibile ibrido tra soul, jazz e folk cui fanno eco liriche evocative ed intense: grazie a dischi impeccabili come “ New York Tendaberry”(1969) e “Gonna Take a Miracle”(1971) sarà influenza imprescindibile per cantautrici di fine anni ’70 come Joan Armatrading e Rickie Lee Jones.

Sempre nel Greenwich si muove l’Arlo Guthrie di “Alice’s Restaurant” (1967), con uno storytelling surreale che brilla sia nella chilometrica title-track sia nella celebre “Motorcycle song” e David Peel, che prosegue in “American Revolution”(1970)sulla falsariga dei Fugs, tra cori stonati e testi affilati e sarcastici.

Texani sono invece Townes Van Zandt e Mickey Newbury, autori animati da una vena intimista e commovente che vive attraverso forti ascendenze country in dischi come, rispettivamente, “ Our Mother the Mountain” e “It Looks Like Rain”, entrambi del 1969.

Molti degli autori più importanti dell’epoca risiedono comunque al di fuori dei confini degli Stati uniti, in particolare Canada ed Inghilterra.

Canadesi sono Leonard Cohen, Joni Mitchell e Gordon Lightfoot: il primo, già noto come scrittore e poeta, esordisce musicalmente nel 1968 con “Songs of Leonard Cohen”, sostituendo il tono declamatorio di tanto folk con un suono intimo ed un cantato rilassato, spesso sussurrato, che sarà ripreso da innumerevoli gruppi che su quel suono quieto ed immobile fonderanno il proprio dna musicale, primi fra tutti gli esponenti del cosiddetto slowcore e del dream pop americano.

Non meno importante si rivela Joni Mitchell, che porta il folk al di fuori dei suoi confini, integrandolo e contaminandolo col jazz: lo strumento che risalta su tutti nei suoi dischi è proprio la voce, specie in dischi come “Blue” (1971) e “Court and Spark” (1974): la sua influenza si rivelerà enorme su tutte le cantautrici dei decenni a seguire e può essere avvertita ancora adesso nei dischi di autrici come Norah Jones e Polly Paulusma.

Più classico nel suono e nelle influenze Gordon Lightfoot, esordiente a 27 anni su “Lightfoot!” con un folk virato country e spesso vicino al soft rock: troverà il successo qualche anno dopo con “Sit Down Young Stranger” (1970), album reso famoso dal successo di “If you Could Read my Mind”, e che propone tra l’altro la prima cover di quella “Me and Bobby Mc Gee” che sarà resa famosa di lì a poco da Janis Joplin.

Dall’altra parte dell’Atlantico provenivano invece John Martyn e Cat Stevens.

Il primo, impegnato ad espandere il registro del folk integrandolo con blues, rock,jazz,musica mediorientale, sudamericana e giamaicana raggiunge il capolavoro con “SolidAir” (1973), disco spesso associato alla contemporanea scena progressive, una delle massime espressioni del suo melting-pot musicale.

Più tradizionale la figura di Cat Stevens: filosofico e misticheggiante, è autore di un folk pop di presa immediata che fa dei suoi dischi, in particolare “Tea for the Tillerman”, (1970), piccoli gioielli del genere come la celebre parabola di “Father and Son” e la sconsolata “Wild World” stanno brillantemente a testimoniare.

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