Regina Spektor – Home, Before And After (2022)
Lontana da casa, nel gelido buio della solitudine, la femminilità diventa un abito a doppio strato. Regina Spektor ha realizzato il suo nuovo album “Home, Before And After” a distanza, appunto. Rintanata in una capanna nello stato di New York, si è messa a registrare tutto da sola all’interno di una chiesa convertita. Per poi inviare successivamente il suo lavoro al coproduttore della Warner John Congleton.
Per viverci nella tua casa c’è bisogno di un prima e un dopo, di nuovi primi ingressi. Le rinascite non sono legate soltanto a periodi di dissociazione, quei momenti in cui ci sembra di esser lontani da tutti, con i piedi che non toccano la terra che calpestiamo. I numerosi primi ingressi nella propria alcova sono strettamente associati alla maturazione, ai cambiamenti che solo chi ci conosce davvero sa scoprire attraverso le mutazioni delll’intensità della luce dei nostri occhi.
42 anni, nata a Mosca ma naturalizzata statunitense, Regina è pianista e cantautrice caratterizzante la scena anti-folk dell’East Village di New York. Un menestrello al femminile, incollata al pianoforte, che nei suoi brani ha sempre intessuto trame e storie di topoi, immedesimabili, caricaturali, a mo‘ di narrazione vignettistica. Stavolta invece con “Home, Before And After” non ce la racconta giusta. Sembra esserci qualcosa di estremamente personale in questo album. Un percorso catartico, preceduto da un sincero smarrimento emotivo. Dieci brani intrisi di malinconia, dubbi, confessioni in sordina al pubblico.
Becoming All Alone è un dialogo senza interlocuzione con il Creatore. But this whole world/ It makes me carsick/ Stop the meter, sir/ You have a heart/ Why don’t you use it?”. La birra si fa sempre più calda mentre il discorso è sciolto morbidamente, come quando si incontra un vecchio amico e ci si confessa senza indugi, perché a lungo abbiamo pensato a cosa gli avremmo detto il giorno in cui lo avremmo rincontrato. Il canto soave raggiunge gli apici da golden age di un pianoforte strumentalizzato al punto tale da generare in noi sensazioni malinconiche che non sapevamo nemmeno di avere,
Raindrops cadono sull’asfalto davanti all’ingresso di un piccolo locale del centro. Regina è quella di sempre. Seduta al piano con un vestito laminato in verde lucente. Labbra morbide di un rossetto fuoco e occhi blu languidi. Una old recording in new version spoglia di qualsivoglia artificio sonoro. One Man’s Prayer, track naive, andante pop che improvvisamente prende una piega introspettiva buia. Dietro ai freschi giri di batteria c’è una cruda denuncia sociale, travestita da black humor. Loveology, fenomenologia dell’Amore. Tra i brani preferiti dal pubblico, la traccia è ricca di vocalizzi virtuosi. Il canto istrionico e virtuoso è qui marchio per la Spektor.
Sembra esser passato davvero un secolo da quando la famiglia di Regina si trasferì dalla Russia in America. All’epoca (aveva 17 anni) il suo pianoforte era rimasto a Mosca e lei doveva andare di immaginazione nella composizione musicale. Immaginazione che dichiara essere ancora oggi il principale motore della sua produzione artistica. La Spektor, infatti, sostiene di aver scritto circa 700 canzoni ma di non averle accompagnate tutte con musica. Questi brani afferma, inoltre, sono delle istantanee di racconti e storie che ha osservato in giro e che ha sentito il bisogno di immortalare su carta. Ci sarebbe quindi davvero poco di autobiografico nei suoi testi. Eppure il senso di necessità di una fissa dimora traspare fortemente in questo suo ottavo album.
I produttori di OST televisivi le fanno ancora la corte (la musica della Spektor appare infatti nelle colonne sonore di “The Leftovers”, “The Good Wife” e nella sigla originale di “Orange Is the New Black”) ma Regina, oggi, ha probabilmente deciso che le sue canzoni saranno pro tempore de movies a sé stanti.
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