Xavier Rudd - Jan Juc Moon (2022)

di Giuseppe D'Amato

Xavier Rudd ha due qualità formidabili che lo distinguono dalla media: la prima è che non indossa quasi mai le scarpe per via del suo rapporto viscerale con la natura, la seconda è che riesce a scrivere brani semplici, spontanei, talvolta persino prevedibili, e che tuttavia risultano sempre piacevoli e vanno dritti al punto. Il suo è un campionario folk-blues venato di contaminazioni con un occhio di riguardo per la cultura aborigena, che gli scorre dentro sin dai tempi dell'album d'esordio “To Let” (2002) per via del patrimonio genetico.

Con questo decimo “Jan Juc Moon” lo sciamano di Torquay, sud-est dell'Australia, aggiunge anche un po' di elettronica fai-da-te al suo già agguerrito strumentario, confermandosi uno degli one-man band più creativi e affidabili degli ultimi anni sia in studio che dal vivo, dove è solito destreggiarsi con chitarra, stompbox, tamburi, armonica a bocca, didgeridoo e tutta una serie di arnesi che ha imparato a maneggiare poco più che bambino sulle coste dell'Oceano Pacifico quando, allora come oggi, divideva i pomeriggi tra surf e sogni di gloria (la “Jan Juc” del titolo è una cittadina litoranea nello stato di Victoria a un centinaio di chilometri da Melbourne).

“Ogni giorno mi sveglio col rumore di discorsi nel mio cervello, ma non conosco la risposta né la verità” recita tra i versi del secondo singolo estratto “We Deserve To Dream”, così qualche spiegazione prova a darla attraverso tredici brani che tra rock 2.0 e cantautorato neo-hippy motivi per sognare ne contengono qua e là più di uno.

Non pubblicava dischi dal 2018, dopo l'ultimo “Stormy Boy” difatti si è preso un lungo periodo sabbatico a causa della pandemia ma anche e soprattutto per volontà propria di starsene tranquillo al riparo dai riflettori. Isolamento fisico ma non mentale, che porta in dote un viaggio into the wild di una settantina di minuti con itinerario tra le care tappe socialmente consapevoli, quali ambientalismo, salute del pianeta, spiritualità e diritti delle minoranze. L'inno d'apertura “I Am Eagle” (“I can touch the clouds/ spread my wings out proud”) spicca subito orgoglioso il volo con spoken word autoctono, l'immancabile yidaki e una melodia che penetra sotto la pelle. I punti di riferimento sono evidentemente Bruce Springsteen, Bob Dylan, l'amico fraterno Ben Harper e quei Midnight Oil a cui lo legano vicinanza geografica e indole da combattimento, ma troveranno pane per i loro denti anche i fan del nostro Edoardo Bennato.

Sono solo “canzonette” che sanno regalare emozioni con un paio di capolavori eccelsi da mozzare il fiato, su tutte “Great Divine” (piano, chitarra e percussioni gentili in crescendo) e la commovente “Dawn To Dusk”, undici minuti circa di bellezza cinematografica in ricordo di Abi, un  ragazzino del posto morto suicida a soli quindici anni e compagno di merende di suo nipote. Quanto a pathos il resto non è da meno, genuino, intenso e finemente orchestrato: la title track “Jan Juc Moon” è una ninna nanna acustica davvero speciale, scritta una decina di anni fa per il figlioletto Jundi appena nato (in sottofondo si può ascoltare il battito cardiaco registrato durante la gestazione dell'attuale compagna Ashley Freeman), mentre in “Magic” e sul primo fischiettante singolo “Stoney Creek” soffia forte il vento di casa (“The wind is blowin'/ and there ain't no other place where I'd rather be/ this is home”).

È un vento di insospettabili novità, anche sonore, Rudd infatti quando vuole sa pure divertire: “Slidin Down A Rainbow”, ad esempio, muove su un trascinante passo dance lisergico sfruttando cori e un vecchio synth filtrato (sotto al palco ci sarà da ballare), il reggae di protesta “Ball And Chain” (dove la palla al piede è metafora del peso di un'esistenza all'ombra dei coloni europei) giostra invece con le rime del rapper conterraneo J-Milla, aborigeno anch'egli ma della tribù Marranunggu. Uno spettro cromatico dalle sfumature piuttosto ampie, in cui “Angel At War” e “Joanna” tutto sommato fanno la figura di riempitivi, sia pur di buon livello.

Il meglio però arriva ancora da pezzi lenti e riflessivi: le malinconiche “The Window” e “The Calling” sono le ultime due perle di un disco riuscitissimo in cui natura, amore per la vita e le piccole gioie del quotidiano divengono l'antidoto ideale a un mondo che si sta facendo troppo opprimente. Più facile a farsi che a dirsi, come la musica di Xavier Rudd. 

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