Purple Rain: la consacrazione rock di Prince
di Luca Divelti
Cosa poteva andare storto? L’offerta di aprire due concerti dei Rolling Stones al Los Angeles Coliseum era un’occasione troppo ghiotta da farsi scappare: poteva finalmente giocare nel campo dei grandi, accanto a Mick Jagger che, volendolo con sé, legittimava tacitamente il suo status di stella nascente.
E Prince si sentiva davvero una stella: a soli ventitré anni aveva già quattro album alle spalle e l’attenzione di critica e pubblico di colore, che gli riconoscevano un talento incredibile e un carisma invidiabile.
Quindi in quel tardo pomeriggio del nove ottobre 1981, sicuro dei suoi mezzi e della sua fidata band, il giovane rampante di Minneapolis si apprestò a salire sul palco, assolutamente impreparato alla catastrofe che si stava delineando.
I fan degli Stones, contrariamente a ciò che immaginava, non lo accolsero bene (per usare un eufemismo) e dopo poche note soltanto iniziarono a riversargli addosso insulti razzisti, boati e a lanciargli contro lattine, cibo e ogni tipo di oggetto: chi diavolo pensava di essere quel negretto con l’impermeabile da guardone, che si atteggiava tanto con la chitarra e pretendeva di stare sullo stesso palcoscenico dei grandi Stones?
Nonostante un misero tentativo di resistenza di fronte al rumore assordante, Prince si arrese e abbandonò quella che era diventata una corrida, sconfitto dagli oltre novantamila presenti: non c’era possibilità che il secondo concerto, che distava solo due giorni, lo avrebbe rivisto suonare.
Mick Jagger provò a convincerlo a ritentare, pungolandolo nell’orgoglio, proprio dove era stato maggiormente ferito: il front man disse al ragazzo che se voleva diventare davvero una star, doveva essere pronto ad affrontare ogni situazione, compresa una folla inferocita.
Ma a fargli decidere di non mollare fu Dez Dickerson, il suo chitarrista, che batté sul tasto del razzismo: quei bianchi strafatti di birra non potevano averla vinta così facilmente, non dopo tutto quello che gli avevano urlato contro.
L’undici ottobre un Prince demoralizzato andò di nuovo in scena sul palco del Coliseum: le urla, le offese e il bombardamento si ripeterono con maggiore intensità, ma lui stavolta non si fece sopraffare e finì il suo set.
Molti giornali biasimarono apertamente la condotta del pubblico, ma altri invece andarono a nozze con la storia, divertendosi a prendere anche loro in giro quel ragazzo impudente che, volendo stare accanto agli dei del rock, si era bruciato le ali.
Prince non digerì mai queste critiche, soprattutto perché non si rivedeva nell’essere descritto dai media come il tipico cantante efebico degli anni ottanta (cosa che stava facendo la fortuna di Michael Jackson): lui era il cantore libertino del sesso e della ribellione, proprio come gli Stones e su quel palco sentiva di avere il diritto di stare.
Perciò decise che non avrebbe mai più aperto concerti per altri, ma anzi avrebbe lavorato ancora più duramente per imporsi da solo: se qualcuno riteneva che la sua voglia di affermarsi fosse stata compromessa, avrebbe dovuto ricredersi, perché lui ora puntava alla cima.
Il passo successivo fu 1999, album doppio che uscì esattamente un anno dopo i fatti di Los Angeles: la miscela di funk e new wave che aveva irradiato in Dirty Mind e Controversy si evolse furiosamente in qualcosa di nuovo, chiamato Minneapolis sound.
I sintetizzatori diventavano i driver su cui installare tutto quello che gli passava per la testa, apparendo in primo piano nella struttura dei suoi vorticosi funk assieme ai densissimi bassi e alla drum machine. Il Minneapolis sound era una struttura ritmica densa e nebulosa, che ricordava un convoglio che non riusciva a prendere velocità: su di essa Prince si divertì a sovrapporre strumenti, voci, urla, assoli e cori.
L’album e la sua tournée furono un successo e rilanciarono le quote di Prince, consolidando anche l’idea nei dirigenti della Warner Bros. (che gli avevano dato carta bianca quando aveva solo diciotto anni) di avere in casa il loro Michael Jackson. Ma Prince, almeno per il momento, non era interessato a spostare la sua attenzione al pop come aveva fatto Jacko con Thriller: voleva come Michael conquistare il pubblico bianco, ma attraverso la sua chitarra e addirittura un film.
I casi precedenti di un musicista protagonista in un film non gli erano molto favorevoli e spesso le avventure davanti alla cinepresa dei suoi colleghi si erano risolte in fiaschi colossali, ma Prince era gonfio di un’ambizione che rivaleggiava con il suo talento e voleva abbattersi come una furia non solo negli stadi, ma anche nei cinema.
Buttò giù lui stesso una storia e presentò il progetto alla Warner, che non ebbe il coraggio e la forza di dirgli di no, ma gli vietò (saggiamente) di fare anche il regista.
A ricoprire il ruolo, dopo che i tanti interpellati si erano defilati, toccò al quasi debuttante Albert Magnoli, che aiutò Prince a scrivere la sceneggiatura e a selezionare le canzoni adatte a quella che sarebbe stata la colonna sonora del film: la pellicola avrebbe raccontato tutto l’universo musicale di Prince e di Minneapolis attraverso una vicenda formalmente autobiografica.
Mancava un nome da dare a film e album e alla fine si scelse un brano suonato per la prima volta in un concerto benefico, durante la pausa delle riprese: quel pezzo era Purple rain, una struggente e grandiosa ballata scritta da Prince sullo stile di Bob Seger che sarebbe diventata la sua canzone simbolo.
In quegli struggenti nove minuti scarsi Prince creò una canzone d’amore dal testo enigmatico e apocalittico (la fine del mondo su cui si scatenava la pioggia viola) e si legava per sempre a uno dei più memorabili assoli del rock: Prince ora era certo di avere per le mani finalmente il suo inno da stadio, che tutti, bianchi e neri, avrebbero cantato a squarciagola durante i concerti.
Ma forse non si aspettava davvero la reazione all’album e al film.
Ad anticipare l’album fu When doves cry, che uscì nel maggio del 1984 e travolse radio e classifiche, alzando la temperatura attorno all’album che la conteneva. Purple rain debuttò nei negozi il mese dopo, appollaiandosi in testa alle classifiche per mesi: Let’s go crazy, Computer blue, Darling Nikki e le altre gemme contenute disegnarono un affresco in cui hard rock, psichedelia, ballate e funk coesistevano audacemente.
Prince si ergeva come la nuova rockstar nera, che non aveva bisogno di Eddie Van Halen per accreditarsi con i bianchi come aveva fatto Michael Jackson, ma inseguiva ossessivamente l’estro della sua chitarra come un novello Jimi Hendrix.
Il film Purple Rain uscì nelle sale nel luglio 1984, spodestando subito Ghostbusters dalla cima delle classifiche: la scommessa azzardata era andata ben oltre le aspettative e il piccolo principe viola ora appariva a tutti come un re.
La pellicola incassò settanta milioni di dollari, dopo esserne costata sette, mentre il disco vendette tredici milioni di copie e si aggiudicò l’Oscar come migliore colonna sonora: Prince aveva fatto jackpot ed era entrato direttamente nel gotha del rock, senza rinunciare alle tematiche a lui care, danzando spavaldamente tra allucinazioni pornografiche e dolci storie d’amore.
Dopo Purple Rain Prince non si sarebbe più fermato e sarebbe diventato il più brillante artigiano dell’arte della contaminazione musicale degli anni ottanta: nella sua sfacciata e compiaciuta voglia di stupire e di giocare con i generi avrebbe allargato definitivamente i confini conosciuti della musica nera, facendola approdare finalmente nell’agognato porto del rock.
L’eleganza jazz di Duke Ellington, l’urlo liberatorio di Little Richard, l’insolenza visionaria dei Beatles, la psichedelia torrenziale di Hendrix, il funk inflessibile di James Brown, la malizia nello stupire di Sly Stone, la morbida dolcezza di Joni Mitchell, le lunghe esplosioni chitarristiche di Santana, l’irriverenza trasgressiva di George Clinton, la raffinatezza soul di Stevie Wonder e il piacere di essere un enigma come Bowie diventarono preda del suo genio trasgressivo e allucinato.
Molti anni dopo Prince si sarebbe dovuto esibire durante l’intervallo del Superbowl 2007, ma una pioggia battente stava imperversando a Miami: preoccupati del maltempo, i produttori dello show avvertirono il cantante, che per tutta risposta chiese se era possibile far piovere ancora di più.
Lo spettacolo, sotto un diluvio torrenziale, vide il genio di Minneapolis brandire la sua chitarra e sconvolgere i presenti con uno spettacolo in cui concentrò tutta la sua arte e che chiuse con una travolgente versione di Purple Rain.
In quel momento catartico c’era tutto: la pioggia, il viola, la chitarra e, forse, la fine del mondo. E lui, che guidava con il suo falsetto uno stadio intero di bianchi e neri che cantavano insieme la sua canzone.
Commenti
Posta un commento