Nduduzo Makhathini – In The Spirit Of Ntu (2022)
Un’interpretazione anticonvenzionale del jazz passa per l’inquieta wanderlust che coglie ogni appassionato viaggiatore – anche solo con l’immaginazione – attraverso tutte quelle regioni del mondo in cui si fa musica utilizzando linguaggi inusuali. Da parecchi anni il Sudafrica offre lo stimolo alle sue variegate voci, dai tematismi caldi di denuncia civile – Miriam Makeba – alla poesia intimista di artisti seminali – Abdullah Ibrahim – alle nuove leve emergenti – Malcom Jiyane – e questi sono solo alcuni dei primi nomi che vengono in mente. Spulciando le note stampa di accompagnamento del pianista Nduduzo Makhathini scopro accanto ai prevedibili titoli professionali – musicista, compositore, improvvisatore – anche un curioso attributo, quello di “guaritore”. A meno che il termine inglese “ healer ” non abbia altri significati che purtroppo non conosco, devo dire che questo sostantivo mi ha sorpreso. Che la musica, dai tempi di Orfeo, abbia possibilità lenitive è un fatto ormai assodato e la musicoterapia ne è un esempio eclatante. Il termine “guaritore”, però, di fronte all’homo saecularis contemporaneo, potrebbe assumere delle caratteristiche un po’ ambigue. Non ho però alcun dubbio, almeno dopo aver ascoltato questo disco, che il potere terapeutico di Makhathini sia effettivamente una realtà, tale è la magia che si sprigiona dai questo album In The Spirit of Ntu. Il concetto di Ntu è legato a quello dell’Essere e soprattutto ad un’idea più estesa di “Unità dell’Essere”, in cui ogni individuo è in stretta comunione con la Natura e quindi compartecipato alla realtà cosmica in un unico, sotterraneo legame. Una strana, negromantica attrattiva, come un effluvio di vapori stordenti, si libera dal jazz di Makhathini che è un insieme di mistica contemporaneità, religiose tradizioni ancestrali, insinuanti cantilene ed appaganti esperienze emotive. Una musica di primissima scelta, originale nella sua arcana bellezza, eseguita da musicisti- sciamani che arrivano diretti al sodo, cioè allo scopo di raggiungere il nostro mondo psichico laddove si celi l’origine dell’esistenza stessa, il chaos primigenio delle più antiche cosmogonie. Questo In the Spirit of Ntu è un lavoro da maneggiare con attenzione che non ha solo il fine di comunicare forti stati emotivi ma bensì quello più nobile di trasmettere conoscenza, quel sapere di noi stessi che costituisce il processo d’individuazione, faticosissimo ma necessario percorso per avvicinarci al senso della nostra vita. Con un pianismo per certi versi più vicino all’approccio di McCoy Tyner ma che non s’allontana dalla religiosa attenzione di Ibrahim per l’anima africana, Makhathini imbastisce un discorso musicale organico, potente ed esperienziale, con l’apporto di una serie di validi musicisti. Troviamo allora Linda Sikhakhane al sassofono, Robin Fassie Kock alla tromba, Dylan Tabisher al vibrafono, Stephen De Souza al basso, Gontse Makchene alle percussioni, Dane Parigi alla batteria, Anna Widauer e Omagugu alle voci e un prezioso ospite come il sassofonista contralto americano Jaleel Shaw.
Un veloce arpeggio sulla parte sinistra della tastiera che praticamente perdurerà per quasi tutto il brano, subito raddoppiato dal suono del vibrafono, è l’avvio di Unonkanyamba, il primo momento musicale dell’album. Un animato volo di percussioni accompagna questo intro mentre i fiati intonano un accenno melodico che ricorda un po’ l’April in Paris di Vernon Duke. Prima il sax e poi il piano si cimentano in due brevi assoli. Makhathini, inizialmente, lavora su qualche accodo molto armonico per poi avventurarsi in una sequenza di note più spigolose. Morbida è la tromba di Kock che s’avventura solitaria tra le percussioni. Quando il sax l’affianca, il piano lavora alternando le note di in un intervallo di terza maggiore, ottenendo una curiosa parentesi dissonante che sfuma nell’accompagnamento del vibrafono e delle percussioni. Un inizio sostenuto da ritmi tribali, potremmo dire, ma che non dimentica la componente melodico-armonica che ruota loro attorno. Mama cambia completamente le carte in tavola, entrando nell’ambito della ballata-canzone, non solo con la voce trasparente di Omagugu, ma anche con un coro maschile di grande suggestione, sebbene quest’ultimo intervento sia minimo nell’economia del brano. Gli strumenti formano una cornice attorno al canto con qualche nota cristallina del piano e un respiro di tromba che contrappunta la voce della performer. Un gran bel brano, intriso di dolcezza, che sconfina in un sentire pervaso d’anima e di incanto magnetico. Amathongo è un nome che si riferisce agli antenati, nell’ambito della lingua IsiZulu. Il ritmo di base è costruito con elementi ritmici dall’aroma latino, un accompagnamento insistito ed efficace di basso elettrico con piano moderatamente free ed una tromba sempre soffice che porta sulle spalle quasi tutta la lunghezza del brano. La presenza di occasionali voci maschili e di qualche frammento corale formano un potente elemento di suggestione chiaroscurale, quasi si trattasse della rappresentazione di un rituale religioso. Nyonini Le rimarca un aspetto vagamente inquietante, in un brano in cui sax, piano e vibrafono sembrano sovrapporsi inizialmente ed un canto-parlato ricorda un formulario magico con un utilizzo della voce quantomeno insolito. Makhatini lavora sul piano in maniera molto libera, apparentemente senza una precisa tonalità di riferimento ma in realtà, lungo il percorso del brano, ci si accorge che si ripete frequentemente una coppia di accordi, soprattutto un FA maggiore con la 5° eccedente che si risolve in un SI bemolle maggiore. Questi passaggi sono l’ancoraggio su cui sviluppare gli assoli free del piano, del vibrafono e poi del sax. Un viaggio un po’ tortuoso, spiritato, alle volte spettralmente ipnotico ma molto affascinante. Emilweni vede l’intervento del sax contralto di Shaw in un brano in cui la sua partecipazione ne sposta l’asse portante, in modo più o meno consapevole, verso il jazz di gente come Coltrane o Shorter, indipendentemente dal tipo di sax suonato. Forse è proprio qui che si notano certe somiglianze con McCoy Tyner, approfittando di un clima che appare più distante – e sarà la sola volta – dalla matrice sudafricana.
Re-Amathambo specifica nel titolo di questo pezzo che si tratta di una rielaborazione del brano di apertura di Ikhambi, un disco del 2017 dello stesso Makhathini. La versione originale di questa traccia era molto più collettiva, piena di strumenti e di cori. Qui invece si punta sulla bella voce della Widauer che trasforma il tutto in una sensuale ballata lenta, una specie di classico moderno con tanto di coro maschile che interviene, talora, in sottofondo. La melodia sale e scende, anche con passaggi “arditi”, tuttavia rimane ben controllata e circondata dai contributi musicali sempre eccellenti sia da parte del piano che dalla continua trama del vibrafono – veramente bravo Tabisher – autore di un ordito costante e non solo in Amathambo. Insieme a Mama, questo ultimo brano rappresenta il miglior intreccio musicale dell’album. Abantwana Belanga (Figli del Sole), dopo un breve intro parlato, si porta anch’esso dalle parti di Coltrane ed il suono della Sikhakhane è veramente convincente, com’è altrettanto efficace l’assolo imbizzarrito di Makhathini. La tromba abbandona le morbidezze per squillare un po’ di più mentre la ritmica s’impegna in un robusto sostegno portante. Omnyama riavvicina tutte le intenzioni possibili all’Africa, costruendosi in un estatico sovrapporsi modale, molto percussivo, in cui è il pianoforte lo strumento di riferimento. Solo a metà brano compare il sax – pare un soprano – che canta insieme alla voce. Verso il finale emerge un breve intervento corale, poco prima della chiusura. Senze’ Nine (Cosa abbiamo fatto) era un inno anti-apartheid, riadattato e riutilizzato, secondo le parole dello stesso Makhathini, per combattere le discriminazioni di genere. In effetti, dopo la lunga introduzione del piano, parte il sommesso coro che fa parte di questa liturgia del ricordo, ricondizionato alla situazione attuale in cui è la parte femminile del mondo a subire violenza ed emarginazione. Ntu, il cui significato abbiamo già precedentemente indicato, è un brano molto malinconico, assai vicino pianisticamente ad Abdullah Ibrahim, ma con un parco di dissonanze in più, quasi a rimarcare un inevitabile cambio generazionale. A parte un paio di note di sax è quasi interamente il piano solo che conduce il gioco e lo fa in modo molto libero e contemporaneo, spesso sporgendosi oltre la ringhiera del free, dimostrando uno stile periferico nel suo modo di affrontare la tastiera, un misto a mezzo tra Cecil Taylor e parte della tradizione pianistica più melodica.
Makhathini corteggia la trascendenza che accompagna la storia del suo popolo, rievocandola in un passato che è sintesi tra cristianesimo e religione animista. Il suo essere musicista promuove una squisita esperienza d’assieme, tra canti intensi e melodie sfuggenti. Uno spirito un po’ selvatico anima le composizioni, quasi tutte di splendida fattura, alla ricerca ultima di una palingenesi culturale, sia dello stesso Makhatini che del Sudafrica tutto.
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