Jeremy Ivey - Invisible pictures (2022)
Tre dischi nell’arco di altrettanti anni, Jeremy Ivey è diventata una delle voci più credibili di quel mondo di mezzo che si muove fra rispetto per la tradizione e cronaca attuale del rock’n’roll. Continuerà, gioco forza, ad essere collocato un po’ nell’ombra rispetto alla carriera lanciata della compagna Margo Price, per la quale Jeremy rimane il fedele chitarrista nella band e la spalla ideale nella parte compositiva, ma Invisible Pictures e così i suoi predecessori reclamano qualche attenzione maggiore per un musicista che dimostra una dose di eclettismo superiore alla media di quel mondo Americana in cui frettolosamente potrebbe essere inquadrato.
Lasciatosi alle spalle un “annus horribilis”, colpito seriemente dalla malattia del Covid, poi risorto a nuova vita anche grazie all’arrivo della prima figlia avuta da Margo, Jeremy Ivey mette da parte il piglio politico e sferzante di Waiting Out the Storm (2020), album elettrico dalle vibrazioni Paisley Underground, sixties e dylaniane inciso con i ribattezzati Extraterrestrials, per abbracciare una svolta personale, in direzione dell’intimità e delle riflessioni di Orphan Child, canzone autobiografica che apre come una sorta di manifesto il qui presente Invisible Pictures. Il cambio di tono non è drammatico, nel mix esalano ancora profumi neo-psichedelici, scrittura folk rock e quel canto un po’ laid back e “svogliato” che caratterizza l’interpretazione di Ivey. Ci sono però arrangiamenti più ambiziosi, colorati e imprevedibili, pedal steel e archi che si impastano con organi e chitarre, volgendo lo sguardo da Dylan verso George Harrison o Harry Nilsson, se volessimo trovare un punto stilistico di unione fra le trame della stessa Orphan Child, in Keep Me High (anche i Beach Boys e la luce della California fanno qui capolino), Invisible Pictures o di una sorniona Downhill (Upside Down Optimist) che azzarda un finale che sarebbe piaciuto a Tom Petty.
Il lavoro di produzione, svoltosi tra Nashville e Los Angeles, coinvolgendo due produttori come Rob Schnapf (storico collaboratore di Elliott Smith, la cui ombra qui si allunga nei passaggi più delicati di Trial by Fire o Black Mood) e Andrija Tokic, ha certamente contribuito ad allargare la visione di Invisible Pictures, un disco che non arriva dritto al bersaglio, ma richiede più sforzi per svelare i suoi segreti, le sue morbide curve e le sue esplorazioni sonore. Il songwriting, combattutto tra luci e ombre, influenza una musica più umorale, a livello compositivo attirata da una maggiore complessità, pur conservando un cuore semplice da folksinger, qui catturato all’incrocio di un pop d’autore nostalgico (i languori di Empty Game, il finale per piano e armonica di una “younghiana” Silence and Sorrow) che sposta un gradino più in là le ambizioni, tutte legittime, di Jeremy Ivey.
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