Chris Bathgate - The Significance Of Peaches (2022)
Cercavo un passato che Euridice non sa.
(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò)
Orfeo guida una Oldsmobile dell’85. Un carro funebre immacolato per varcare i cancelli degli inferi. Euridice lo attende tra i fiori di pesco, immobile nella sua veste candida. L’oltretomba ha le sembianze dei filari di un frutteto. Al centro del campo troneggia un vecchio organo a pompa, e lì accanto il cantastorie ripete il suo monito: “Don’t look back”.
La memoria e l’oblio, l’amore e la morte, la terra e il cielo: nel video di “Don’t Look Back” ci sono tutti i temi del nuovo album di Chris Bathgate. Il primo dopo cinque anni di silenzio, perché il songwriter americano ci ha abituato ormai a seguire un tempo dilatato, che sembra non conoscere la compulsività degli algoritmi. Il ritmo delle stagioni della vita, sempre in attesa di un compimento: “Ain’t it strange how the things we’ve done/ Often are a case of not enough/ That’s love, or something”.
Lo suggerisce già la copertina del disco: è quell’organo che spunta tra i rami fioriti il vero protagonista di “The Significance Of Peaches”. Dopo la pubblicazione di “Dizzy Seas”, Bathgate ha abbandonato il Michigan alla volta della California. Prima di partire, ha dovuto vendere tutti i suoi strumenti o lasciarli al banco dei pegni. Tutti tranne l’organo, l’unica costante in un momento di cambiamento radicale. Quando è entrato negli studi Tiny Telephone di John Vanderslice, a San Francisco, è stato naturale ripartire da lì: “È diventato come la nota centrale di un profumo”, spiega. La scia più avvolgente al cuore della piramide olfattiva.
Fin dall’iniziale “Sweet Fern”, così, è il suono liturgico dell’organo a fare da preludio a ogni brano, come un’eco del respiro del mondo. Ed è sempre l’organo a condurre con solenne confidenza le melodie attraverso la loro ossatura di battiti e pulsazioni. Non ci sono chitarre, stavolta, ma il modularsi della voce di Bathgate diventa uno strumento a tutti gli effetti. La necessità si fa chiave estetica del disco e la musica procede per sottrazione, verso un gospel rarefatto e meditativo.
A un certo punto, però, i soldi sono finiti. Ci sono voluti due anni, prima di poter riprendere in mano quelle registrazioni incompiute. Due anni in cui la vita di Bathgate è cambiata di nuovo: il ritorno in Michigan, l’avventura di costruire una famiglia, la nascita del primo figlio, la pandemia. Come per tutti noi, le cose hanno acquistato una prospettiva diversa: il legame con i luoghi, la relazione con gli altri, il sentimento della fragilità. I versi di “Bruises”, ispirati dal senso di alienazione della vita a San Francisco, hanno assunto lo slancio di un grido di fratellanza universale: “Can’t you see it? We’re connected/ Can’t you feel it, the connection?/ We’re spinning the same direction”.
Su una canoa cullata dalle acque al tramonto, Bathgate ha trasformato le sue sessioni in streaming da quarantena in un ritorno alla terra, alle radici. L’occasione per ritrovare l’humus della tradizione. Allo stesso modo, in “The Significance Of Peaches” il fiddle si insinua tra le pieghe di “Eliza”, quasi come un’invocazione a quella personale musa del folklore già cantata in “Salt Year”. Le parole del poeta irlandese Patrick Kavanagh riecheggiano nella cover di “Raglan Road” dei Dubliners, accompagnate dal canto sintetico delle tastiere. Ma non si tratta altro che di increspature, in una raccolta di canzoni più pura e compatta che mai: “Sono semplicemente io che dico la verità”, confessa Bathgate.
Le pesche del titolo, allora, diventano il simbolo di questo percorso. La ricerca del tempo perduto, il sapore della memoria di un’estate sospeso sul fluttuare della title track. La ricerca del nocciolo, del proprio personale asse del mondo, attraverso le peregrinazioni nei boschi di “The Van” (“As if there was some holy center/ As if my heart were free to wander”). La ricerca di qualcosa capace di durare, nascosto da qualche parte nella polpa dell’esistenza che fa vibrare “Stone”. Perché per Bathgate non c’è niente di più grande da lasciare a un figlio che un albero di pesche, “la dolce promessa di frutti che maturano nel tempo”.
Forse aveva davvero ragione Pavese, è proprio per questo che Orfeo si è voltato a guardare indietro: le stagioni passate non possono tornare. Devono restare lì, come Euridice, nel paese delle ombre. Eppure, dentro di sé custodiscono qualcosa, una traccia che non scompare con loro: il seme di un nuovo tempo, di una nuova fioritura, di un nuovo raccolto.
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