Warpaint - Radiate Like This (2022)

 di Nino Ciglio

Ad ascoltare Radiate Like This, sembra incredibile che sia passato mezzo decennio dal precedente album delle Warpaint, Heads Up (2016). La formula è pressoché immutata: dream pop raffinatissimo, impreziosito da innesti che dialogano a volte con la psichedelia, altre con l’R&b. Lo stile con cui questa formula viene messa in scena è altrettanto invariato. Atmosfere sognanti, armonie lussureggianti e strati di calibrata emotività. Le aspettative, quelle relative a una band che è emersa in un periodo (2007-2009) in cui le indie-girl-band con caratteristiche simili erano all’ordine del giorno, anche loro sono rimaste invariate. Quando c’è questa qualità, quest’attenzione ai dettagli, questo gusto da estete del suono, è impossibile non prestare attenzione ai possibili scossoni.

Negli ultimi cinque anni, Emily Kokal, Jenny Lee Lindberg, Stella Mozgawa e Theresa Wayman non sono state l’epitome dell’attività, ma non sono nemmeno rimaste ferme. Maternità, progetti paralleli, colonne sonore, trasferimenti in altri continenti, hanno creato un clima entropico che ha definitivamente separato la vita delle artiste dal loro lavoro. Un lavoro che, ultimato nello studio di Joshua Tree in California poco prima della pandemia, è dovuto rimanere a lungo nei cassetti del co-produttore Sam-Pett Davis (Thom Yorke, Frank Ocean, Skullcrusher). Ma Radiate Like This è anche frutto di un incessante lavorio stilistico, di mesi passati in post-produzione, di Zoom call e di idee nate, rivedute, riscritte. Ognuna dalle proprie postazioni (in Oregon, Utah, California, Australia) ha sviluppato nuove direzioni per il quarto album, creando una diversa consapevolezza che profuma di una separazione fra due mondi. Digitale e analogico, presenza e assenza, comunità e solitudine, personale e collettivo. Radiate Like This prova a trovare un equilibrio in questo mondo di cambiamenti interiori e sociali.

Il risultato è paradossalmente un album che non sposta le coordinate della band. E di cambiamento, neppure l’ombra. Si adagia anzi su un sound ben definito che, nel corso delle dieci tracce, rimane omogeneo, soffuso, d’accompagnamento. Certo, nell’arazzo sonoro del nuovo disco è doveroso aspettarsi affinati tasselli di produzione, architetture hyper-pop di coretti vocali e sintetizzatori che difficilmente sarebbero stati pensabili senza i rimaneggiamenti da remoto che le ha coinvolte nella gestazione. Eppure, il rischio manierismo è dietro l’angolo. L’uniformità e la coerenza di Radiate Like This sono un’arma a doppio taglio. Si fa presto a scadere nell’anonimato.

Rispetto ai toni cupi di alcuni lavori precedenti, la caliginosa opener Champion immette il disco verso un’atmosfera più edificante. Inno autentico all’amor proprio, fra torsioni di chitarre e mormorii libidinosi, il primo singolo oscilla fra chill-out e art-pop di zona Alt-J. Più tormentato e irrequieto è il post-punk quasi industriale (These New Puritans?) di Hips. La strada è buona, ma difficilmente si sfondano gli argini prevedibili del percorso tracciato. Reminiscenze di Heads Up si notano in Steve, brano classico e soul pop che strizza l’occhio al country made in USA. Ci sono echi di Fleetwood Mac e Dolly Parton in una salsa deviata, aulica e intimista. Non ci si sforza e definirlo piacevole. Sempre classica, ma questa volta tramite un dialogo dark fra pianoforte e archi, è Trouble. C’è l’autorevolezza interpretativa di Tori Amos, ma anche un gusto fiabesco nordico fra Björk e Notwist. Altar e Proof obbediscono quasi in maniera ortodossa al credo rock-sperimentale lanciato da Kid A dei Radiohead. Salvo che in quel disco non ci sarebbero entrate nemmeno come outtake. Atmosfere estremamente dilatate, vocalizzi ipnotici, mantra sussurrati e dinamiche dignitose. Non abbastanza per diventare brani imprescindibili, ma gradevoli.

Hard To Tell, Like Sweetness e Melting ripropongono con troppa prevedibilità lo schema “involucro rarefatto-armonia-voce ansimante”. Il dream pop alla base di questi pezzi è francamente datato e, in definiva, poco ispirato. Anche laddove si affrontano temi di rinascita e il clima è più solare (Melting), l’abuso del vocalizzo lamentoso li fa risultare stomachevoli. L’incredibile impalcatura compositiva, gli arrangiamenti squisiti e le indubbie capacità della band rischiano di sgretolarsi di fronte a un pugno di brani poco ispirati e a una sensazione di monotonia, che a volte fa rima con noia.

Rimane la sensazione che le Warpaint abbiano tirato fuori un disco di transizione. Buono, ottimo, per gli aspetti che riguardano le caratteristiche tecniche, debole per quanto riguarda l’afflato emotivo e la scintilla compositiva. Non troppo lontane da Heads Up, le quattro losangeline hanno preferito investire su un usato sicuro, rinviando alla prossima l’occasione di sfruttare la stagione dei grandi cambiamenti a loro favore.

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