Quando Miles Davis fu percosso dalla polizia americana
“Lo vedi quel nome in alto? C’è scritto Miles Davis! E sono io!”
Il poliziotto che gli intimava di allontanarsi dal marciapiede di fronte al Birdland, il locale a Broadway dove si stava esibendo con il suo gruppo, non sembrava particolarmente colpito da quella affermazione e neppure dall’insegna. O forse, più semplicemente, non gli importava affatto. Probabilmente vedere quel nero vestito di tutto punto che accompagnava a un taxi una ragazza bianca lo aveva indispettito: come si permetteva quell’ometto di atteggiarsi con così tanta confidenza con una del colore sbagliato? E poi perché non si limitava ad andarsene come gli era stato ordinato, come facevano tutti gli altri, consentendogli così di riprendere la ronda notturna e soprattutto di ristabilire il giusto senso delle cose? Ma Miles Davis lo fissava dritto negli occhi, con quello sguardo penetrante che non solo non sembrava affatto sottomesso, ma addirittura lo sfidava apertamente.
La discussione intanto declinava fino a prendere una piega imprevista per l’agente, che, esasperato, intimava l’arresto a quello strano nero impettito. Mentre Miles si preparava a doversi difendere non solo verbalmente dall’agente, un secondo poliziotto, uscito fuori dal nulla, gli giunse alle spalle e iniziò a colpirlo violentemente alla testa. Le urla, il sangue e la colluttazione richiamarono curiosi e passanti, tra cui alcuni che conoscevano Davis, ormai a terra e concentrato nel disperato tentativo di non farsi colpire alla bocca. Il suo bel vestito, intanto, era ormai irrimediabilmente imbrattato del sangue uscito copiosamente dalle ferite riportate.
I poliziotti, assediati dalla folla in tumulto, trascinarono Miles al 54° Distretto di New York, dove lo schedarono e lo accusarono di resistenza all’arresto e aggressione a pubblico ufficiale, rilasciandolo la mattina dopo su cauzione. L’incidente non passò inosservato ed ebbe un notevole eco sui media, ma questo non evitò a Davis il ritiro della Cabaret Card, la licenza necessaria per suonare nei locali della metropoli: ci vollero mesi prima che la storia finisse, ma anche se tutte le accuse caddero con tante scuse, la violenza e l’ingiustizia subita lo segnarono per sempre.
Il musicista non aveva dovuto conoscere la fame e il degrado sociale come tanti altri protagonisti di questo libro. La sua era una di quelle rarissime famiglie afroamericane che era riuscita a raggiungere l’agiatezza economica: suo padre era un rinomato dentista che esercitava a St. Louis e questo aveva permesso al piccolo Miles e ai suoi fratelli di percepire e subire molto meno di tanti coetanei la sferzante ed umiliante condizione dell’essere una persona di colore negli Stati Uniti d’America.
Tutto quello che si era potuto risparmiare durante la sua infanzia gli si sarebbe ripresentato però negli anni successivi, quelli in cui la decisione di imbracciare una tromba e vivere di musica sarebbero stati la sua ragione di vita: il jazz e la musica gli avrebbero offerto fama, gloria, denaro, auto lussuose, vizi, donne e bagni di folla, ma gli avrebbero presentato il conto mettendolo spesso di fronte non solo ai suoi fantasmi, ma anche a quelli di una società che faceva fatica ad accettare un uomo di successo che avesse la pelle del colore sbagliato e per giunta ne andasse orgoglioso.
L’arresto e tutto ciò che ne seguì fece venir meno nel musicista la convinzione che alla fin fine anche un nero di talento, pronto a mettersi in gioco, poteva imporsi in una società come quella americana. Il razzismo vissuto sulla strada o nei fumosi e affollati locali jazz, incontrato tra le poltrone delle case discografiche, nelle paghe degli impresari e, infine, nei manganelli dei poliziotti portarono invece il musicista a diventare prigioniero di un personaggio, ribattezzato poi il Principe delle Tenebre, per tanti versi intrattabile e diffidente, schiavo di un cinismo impenetrabile e pungente, ma soprattutto altezzosamente e ostinatamente fiero di essere nero.
E pensare che in quella calda estate del 1959 Miles Davis aveva da poco pubblicato uno dei suoi capolavori, quel Kind of Blue che viene da sempre riconosciuto come un punto di svolta non solo della sua carriera, non solo del jazz, ma della musica tutta: un disco emblematico di quali picchi potesse raggiungere la musica afroamericana nella pienezza e nel fervore della sua spinta creativa. Davis negli anni Quaranta e Cinquanta aveva già rivoluzionato la scena del jazz abbracciando le infinite possibilità strumentali e di improvvisazione del Bebop: assieme a Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Thelonious Monk e a tanti altri musicisti stanchi di compiacere il pubblico e desiderosi di rompere le convenzioni dello swing, Davis andò controcorrente e fondò un genere che avrebbe influenzato per sempre il jazz.
Le fitte trame armoniche, la vertiginosa velocità di esecuzione e le lunghe e articolate composizioni del Bebop mettevano in mostra musicisti che si riappropriavano della musica e affermavano non solo la loro incredibile tecnica compositiva e strumentale, ma anche la definitiva consapevolezza di un proprio orgoglio culturale. Il messaggio di fondo era questo: i musicisti, gli artisti e, in generale, le persone di colore, non avrebbero più accettato di presentarsi come saltimbanchi per i bianchi, né di suonare pedissequamente i brani imposti per andare incontro ai loro gusti musicali, ma reclamavano rispetto, libertà e dignità.
Il Bebop era stato una rivoluzione inaspettata e definitiva, che aveva scardinato molti luoghi comuni del jazz: Birth of the Cool di Davis aveva poi identificato e cristallizzato gli stilemi del genere, mettendo a segno il suo primo capolavoro e diventando uno dei musicisti più celebri negli Stati Uniti. Sul finire degli anni Cinquanta, però, il Bebop stava perdendo vitalità e gli interessi e le attenzioni di Miles Davis lo avevano spinto a cercare nuove vie per affermare la propria musica.
Il cambiamento di rotta fu il jazz modale, che spostò l’attenzione delle improvvisazioni dei musicisti dagli accordi alle scale di note, scardinando di nuovo le rigidità esecutive e aprendo così la strada a una gamma di colori e sfumature sonore fino a quel momento solo timidamente accennate: l’esigenza principale del musicista era di allontanarsi dalle strutture armoniche, ormai troppo dense, per potersi muovere con più libertà dentro alla melodia, scavando fino a trovare una nuova pulsione creativa.
Assieme al suo incomparabile sestetto, a cui appartenevano giganti come John Coltrane, Cannonball Adderley, Paul Chambers, Bill Evans, Jimmy Cobb e Wynston Kelly, Davis riuscì ad amalgamare talenti, idee, sensazioni, espressioni e virtuosismi fino a ottenere un’opera dal lirismo avvolgente e sofisticato.
La registrazione di Kind of Blue vide il leader fornire ai suoi musicisti solo alcuni abbozzi di quello che avrebbero dovuto suonare: la liberazione dai vincoli imposti dagli accordi lasciava spazio all’improvvisazione e all’esplorazione creativa delle melodie. La stupenda So What (lo standard per eccellenza di Miles), la tremolante All Blues e l’eterea Flamenco Sketches spiccano all’interno di questo capolavoro senza tempo, che a un primo ascolto può apparire semplice, ordinato, impalpabile nella sua eleganza quasi sartoriale (come uno dei tanti abiti del trombettista), ma in realtà riesce ad andare oltre la pura formalità esecutiva, seducendo l’ascoltatore attraverso suoni spesso rarefatti, ma dalla inconfondibile bellezza malinconica.
In quel 1959 con Kind of Blue Miles Davis piazzò forse la sua gemma più luminosa (assieme a Bitches Brew), ma ricevette quell’umiliazione che cambiò per sempre la sua percezione della società americana.
La sua arrogante, imperiosa e fin troppo invadente figura di Principe delle Tenebre si è stagliata per oltre quattro decenni sulla musica contemporanea inseguendo costantemente il senso più profondo della musica. Nella storia del Novecento (non solo americano) la sua opera è tra le più adatte per rendersi conto di quante sfaccettature e possibilità la musica può raggiungere: la sua tromba ha tratteggiato nuovi percorsi e si è insinuata in direzioni sconosciute e improbabili, intestardendosi assieme a lui a percorrere strade inedite e scomode, arricchendo man mano di nuovi linguaggi e significati la musica afroamericana, allargando, dilatando e ridefinendo letteralmente i confini del jazz fino a renderli universali.
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