Louis Armstrong, in arte Satchmo: la storia di We have all the time in the world

 di Luca Divelti

“Se qualcuno è stato un maestro, quello è Louis Armstrong” Duke Ellington

Louis Armstrong si era presentato piuttosto malmesso all’incisione del brano: John Barry aveva voluto che a interpretare la sua We have all the time in the world fosse il grande jazzista, sicuro che Armstrong fosse in grado di caratterizzare al meglio la canzone e darle un’impronta degna del grande performer.

Il trombettista non era stato considerato come prima scelta per il tema musicale di Al servizio segreto di sua Maestà, il nuovo film di James Bond, che vedeva lo storico passaggio di consegne tra l’iconico Sean Connery e il fugace George Lazenby per i panni del protagonista: la produzione preferiva volti e nomi più sulla cresta dell’onda, come Nancy Sinatra o Tom Jones, e si domandava se il vecchio Louis fosse davvero capace di polarizzare ancora l’attenzione e rendere We have all the time in the world un pezzo da classifica.

La salute del jazzista era infatti malferma da tempo: dal 1967 in poi tra attacchi di polmonite, problemi cardiaci e alcune patologie renali, Armstrong si era visto costretto a dover limitare drasticamente la vita on the road. La convinzione generale che non si sarebbe più potuto esibire circolava con insistenza tra gli addetti ai lavori e appariva sempre più concreta anche per lo stesso trombettista.

Nonostante il vecchio Louis avesse ben chiaro che il suo fisico ormai faceva più di uno scricchiolio e i tempi in cui dominava le scene erano ormai da considerarsi un ricordo, la sua tempra e voglia di fare musica erano rimaste le stesse e a chi gli chiedeva se c’era ancora qualcosa che volesse fare o raggiungere nella sua carriera, il jazzista rispondeva “vorrei continuare a vivere, non ho ancora finito”.

Uno dei maggiori successi di Satchmo risaliva solo a qualche anno prima ed era quella Hello Dolly!, con cui aveva spodestato dal primo posto in classifica nientemeno che gli imprendibili Beatles del 1964. Quella del sessantenne Armstrong fu considerata un’impresa straordinaria, anche perché compiuta in un’epoca in cui le classifiche premiavano cantanti e gruppi rivolti ai più giovani, mentre la sua generazione faceva sempre più fatica a trovare un pertugio che le permettesse di essere ancora commercialmente rilevante.

L’ultima sua fatica prima di ammalarsi era stata What a wonderful world, pezzo che riuscì a farsi notare e a imporsi nelle classifiche inglesi e che fu invece boicottato dai discografici statunitensi solo per pura miopia: proprio grazie a quell’interpretazione John Barry si convinse che Armstrong fosse l’uomo adatto a rendere indimenticabile la colonna sonora dell’imminente nuovo film di James Bond.

Sebbene ai piani alti della casa discografica fossero numerosi i dubbi sulla capacità del jazzista di essere all’altezza di quanto richiesto, l’autore si era incaponito e aveva insistito fino a spuntarla, sostenendo che proprio la condizione precaria e la progressiva vecchiaia del cantante ne sarebbero stati i punti di forza.

Satchmo si era preparato come sempre in maniera maniacale per la sessione che lo attendeva, copiando il testo più volte per imprimerlo meglio nella mente e sentirlo maggiormente suo: paradossalmente era stato scelto per cantare una canzone che invitava ad apprezzare le sfumature e gli aspetti più belli della vita perché si “aveva tutto il tempo del mondo” per farlo, ma lui, di quel tempo, forse non ne aveva così tanto.

Quando la registrazione partì Armstrong vi mise tutto se stesso: la sua voce si addolcì e sembrò perdersi nei ricordi di quando il giovane Louis troneggiava sul finire degli Anni Venti e registrava West end blues e Ain’t Misbehavin, o quando raggiungeva per la prima volta la cima delle classifiche statunitensi con All of me nel 1932 e subito dopo iniziava la sua lunga serie di tournée per l’Europa, diventando dopo la guerra assieme ai suoi All Stars una sorta di ambasciatore degli USA nel mondo.

Satchmo riuscì a imprimere in We have all the times in the world un’emozione palpabile e commovente, facendo quasi trapelare la consapevolezza e la malinconia di chi vive i suoi ultimi anni e vede sfuggirgli a poco a poco la bellezza della vita.

We have all the time in the world non riuscì a scalare le classifiche e finì inghiottita nel fiasco che si rivelò essere Al servizio segreto di sua Maestà: la canzone, quando uscì nel dicembre del 1969, fu ignorata sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna e dovette aspettare venticinque anni e l’accoppiamento con lo spot di una birra per essere notata. Nel 1994, infatti, i continui passaggi televisivi suscitarono interesse e permisero la riscoperta del brano, cui seguì a ruota la trionfale e la ristampa nella versione cantata da Armstrong, che scalò stavolta trionfalmente le classifiche.

Louis Armstrong, nel frattempo, si era spento nel 1971: un infarto portò via per sempre il suo sorriso e la sua contagiosa voglia di vivere, ma non riuscì a far dimenticare il grande lascito e l’influenza del jazzista sulla storia della musica, che aveva un debito infinito nei suoi confronti. Nonostante l’insuccesso iniziale We have all the time in the world, il suo capolavoro incompreso e postumo, era riuscito alla fine a strappare se non proprio tutto, almeno un po’ di tempo al mondo per rendergli giustizia.

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