Jesper Lindell - Twilights (2022)
di Domenico Grio
A poco più di due anni di distanza dal disco d’esordio, Jesper Lindell si ripresenta con un nuovo lavoro. In realtà la realizzazione di questo Twilights pare sia stata tutt’altro che semplice, avendo dovuto, il nostro bravo musicista svedese, fare i conti con seri problemi di salute, aggravati, manco a dirlo, dalla pandemia. Come da lui stesso precisato, senza l’aiuto dei suoi collaboratori che, oltre a suonare, hanno fornito un importante contributo di idee e “profuso anima e cuore” nel progetto, molto probabilmente non sarebbe stato possibile dare alle stampe l’album e, soprattutto, tirare fuori il meglio da questi dieci brani in bilico, come da copione, tra la canzone d’autore ed il soul bianco di Van Morrison ed il rock classico della Band.
Rispetto ad Everyday Dreams però, pur rimanendo intatte linee guida, mood e propensione a romanticherie montate su melodie gentili e scintillanti, si infittisce il quadro sonoro, privilegiando l’ambito country e roots-rock. Si avverte certamente una maggiore consapevolezza e maturità espressiva, così come sembra trovare forma uno stile più ricco e al contempo più definito. Jesper rimane fedele alla linea classica, rimarca le sfumature soul ma amplia i propri orizzonti, trovando ispirazione in gente come Amos Lee o magari captando le buone intuizioni di Hiss Golden Messenger e di Josh Ritter. Arriva così a consegnare, a nostro modesto parere, il suo più fedele manifesto, rappresentativo della versione più evoluta e convincente della sua Americana. Insomma quello in cui si osava sperare dopo la pubblicazione del primo disco, vale a dire il passaggio dall’ambito degli epigoni, alla sfera del bello e credibile, è accaduto e per uno che vive nel nord dell’Europa, nella sconosciuta Ludvika, è cosa straordinaria.
L’album funziona alla grande non solo perché i pezzi sono di ottima fattura, perché Jesper, assieme a Bjorn Pettersson, ha saputo coglierne l’essenza in fase di produzione o perché le voci di Klara Söderberg, Theo Lawrence e Amy Helm (per la cronaca, figlia di Levon Helm) ne hanno incentivato l’effetto scenografico ma, soprattutto, perché profumano di autenticità, si posizionano oltre gli stereotipi ed abbattono con naturalezza ogni ostacolo spazio-temporale. Lui lo dice: “il punto non è copiare o addirittura imitare ma ascoltare e imparare”, così come hanno fatto molte altre band svedesi. Ma il punto è anche acquisire e rielaborare quel linguaggio ed è qui che Jesper fa la differenza e supera di slancio anche parecchi colleghi d’oltreoceano. Anzi viene da pensare sia riuscito a trasformare quello che potremmo definire il gap geografico, in un elemento di forza.
Il disco scorre in maniera fluida, nessun calo di tensione. Difficile persino scegliere gli episodi migliori. Se vogliamo sono tutti dei piccoli classici. Si inizia con Westcoast Rain, un tuffo rivitalizzante negli anni settanta, si passa a If There Comes a Time che valorizza le capacità vocali di Jesper e richiama le cose migliori di Amos Lee e ancora al luminoso duetto con la già citata Amy Helm (Twilight, cover tratta da “Island” della Band) ma c’è spazio anche per il New Orleans sound di Dance e per la morbida elegia in falsetto di Into the Blue che potrebbe citare il Ben Harper più confessionale. Jesper dovrebbe iniziare a breve un tour per portare in giro questo suo nuovo album. Le aspettative solo alte e il consiglio non può che essere quello di seguirlo con l’attenzione che merita.
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