Sly & the Family Stone: l’eclettica fantasia della musica nera

 di Luca Divelti

Quando sul finire degli anni sessanta la musica soul sembrava essere giunta a una fase di stallo e di perdita di creatività, apparve quasi dal nulla qualcosa di profondamente strano, che rase al suolo ogni preconcetto musicale esistente fino a quel momento.

Se non era abbastanza essere incapaci di stabilire a quale genere appartenesse quella musica piombata nelle radio, che mescolava senza ritegno soul, funk, jazz, rock e psichedelia, scoprirne poi gli esecutori in una band multirazziale lasciava addirittura tramortiti.

Sly and the Family Stone rispondeva al nome di quell’oggetto non identificato, che prese possesso della musica nera alla fine di quel decennio così difficile e pieno di aspettative sociali spesso tradite e la portò a un’ulteriore evoluzione.

Sylvester Stewart era un dj di San Francisco che conosceva la musica e la sua storia e non ignorava quante volte l’industria avesse sfruttato le idee degli artisti di colore a favore dei colleghi più pallidi. Da qui l’idea di prendere a sua volta in prestito gli stilemi cari al rock dei bianchi e tradurli nella linfa che avrebbe ridato forza all’originalità della musica nera.

Sylvester mise insieme una band multi etnico assieme a suo fratello Freddie e divenne Sly, leader di un gruppo che faceva della mescolanza di genere e cultura il suo punto forte e i cui i membri erano tutti coinvolti nella scrittura e nella composizione dei brani.

Da sottolineare anche la novità assoluta che Sly introdusse, rendendo ancora più unica la sua compagine musicale: Stone fu il primo a volere che le donne fossero messe sullo stesso piano dei componenti maschili della band. Infatti Rose Stone, Cynthia Robinson e tutte le altre artiste che si susseguirono negli anni all’interno del gruppo non venivano limitate al ruolo di coriste, ma suonavano strumenti e partecipavano attivamente all’identità di Sly and the Family Stone.

Il gruppo si affermò grazie alla sua capacità di saper passare abilmente da un’atmosfera all’altra e in breve tempo divenne uno dei punti di riferimento della scena musicale.

Questa sorta di famiglia musicale, in cui uomini e donne erano tutti coinvolti, ambiva a raccogliere seguito sia nei ragazzi di colore che in quelli bianchi, riuscendo in qualcosa che raramente era avvenuto precedentemente e, allo stesso modo, avrebbe fatto fatica a ripetersi dopo.

L’unicità di Sly, che si appoggiava su una creatività e libertà stilistiche difficilmente replicabili, emerse in tutta la sua forza con Dance to the Music, un vivace e scintillante brano che metteva in risalto tutta la potenzialità del suo genio polistrumentista e dei suoi fidati compagni di viaggio.

In poco tempo la sua rivoluzione evidenziò quante possibilità c’erano ancora da grattare dalla superficie della musica nera, che aveva ancora molto da dare e da esprimere. La consacrazione definitiva del suo genio arrivò nel 1969 con Stand, album che conteneva più di una gemma del loro repertorio e che definì letteralmente un’era.

Tra le canzoni del disco vi era una che spiccava più di altre, quella Everyday People, in cui la band riuscì a catturare l’atmosfera di quel tempo così particolare, legando all’ottimismo tipicamente hippie una melodia originale e bozzetti di pace razziale.

Everyday People nascondeva dietro il vestito da semplice canzone per ballare un animo gospel e il desiderio di una maggiore tolleranza non solo razziale, ma che potesse comprendere anche le scelte di genere, stile e cultura. La canzone trascinò Sly and the Family Stone sulle vette delle classifiche, regalando loro una celebrità che sembrava inaccessibile solo pochi mesi prima.

Sly and the Family Stone erano giunti finalmente in cima, acclamati come portatori del nuovo funk, incensati per gli strabilianti spettacoli dal vivo (tra cui la loro esibizione a Woodstock) e per la genialità del loro leader, ma l’apparente colosso musicale poggiava su gambe d’argilla.

Dopo aver raggiunto la vetta e indicato la via su cui la musica nera doveva e poteva dirigersi, Sly cadde nella spirale della droga, che lo inghiottì e distrusse la caleidoscopica creatura che amava chiamare famiglia. L’eroina e i dissapori spinsero via figure fondamentali nell’economia musicale dei Family Stone, come Larry Graham e Greg Errico, che portarono altrove i loro talenti, lasciando sempre più solo Sly con i suoi demoni.

Nel 1975 la band, ormai pallida imitazione di quella di pochi anni prima, finì la sua corsa definitivamente, mentre il suo leader avrebbe provato negli anni successivi a ritornare alla ribalta senza però riuscire nell’intento. Paradossalmente negli anni settanta, proprio nel decennio che avrebbe portato alla completa maturazione e consacrazione la musica nera, la band più innovativa si era disintegrata, consumata dalla stessa energia in una manciata di album.

Sly Stone non seppe più tornare a solcare le classifiche e si rinchiuse in se stesso, allontanandosi da tutto ciò che richiamava il suo passato di musicista. Nonostante la sua stella abbia brillato solo pochi anni è impossibile non riconoscere nella sua figura uno dei più grandi geni della musica nera: difficilmente classificabile in un unico genere, Sly Stone ha creato un nuovo sound e spinto i propri contemporanei a una maggiore coscienza sociale e razziale.

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