Ryan Adams - Chris (2022)

di Tony D'Onghia

Non è la prima volta che Ryan Adams ricorre all’espediente della trilogia di album rilasciati a distanza ravvicinata per dare un ordine ed un senso ad una sorta di patologica, compulsoria prolificità. Era già successo con la sequenza composta dal cosiddetto Self Titled, da Prisoner e 1989, o prima ancora con Cold Roses, Jacksonville City Nights (testimonianze della sua fase “imperiale” supportato dagli impeccabili e compianti The Cardinals) e dall’intimistico 29. Una preannunciata – già nel 2019 – terzina di uscite discografiche dalla genesi sofferta, iniziata con l’acustico confessionale ed amaro Wednesdays e proseguita con lo stilizzato e levigato pop rock radiofonico di ispirazione 80s di Big Colors, arriva ora al suo compimento con questo Chris.

Nel suo complesso, un progetto non certo facile da realizzare. Gli ultimi anni sono stati decisamente burrascosi per il musicista. Anni in caduta libera che hanno reso necessari ripensamenti e cambi di rotta che lo hanno obbligato ad intraprendere un percorso di riabilitazione; nei confronti del pubblico (in particolare dei fan), dell’industria discografica, ma ovviamente e prima di tutto nei confronti di se stesso e di chi gli sta o è stato più vicino. Nel segno di questa totale messa in discussione, i già citati Wednesdays e Big Colors hanno avuto una funzione catartica.

Da parte sua, Chris rielabora in parte il lutto derivante dalla perdita prematura del fratello nonché del fido bassista Chris Feinstein (da qui il titolo in doppia dedica) ma contemporaneamente offre altri piani di ascolto, andando a pescare tra materiale inedito e rarità più o meno rimaneggiate, tra facciate B, demo, versioni provvisorie ed estemporanee già rese pubbliche in versione live e che sono uno dei motivi per cui la produzione del rocker sembra essere infinita ed a volte imperscrutabile. Una versione rock della tana del coniglio bianco di Alice da cui non è più possibile uscire o raccapezzarsi. Quello che ne risulta è una raccolta composta da ben diciotto brani più bonus track che attinge in maniera apparentemente casuale tra le sue varie fasi discografiche e le anime ed i riferimenti musicali – tra l’alt country, il rock da FM, l’ossessione per il sound britannico degli 80s, il punk ed ancora lo Springsteen inconsolabile romantico di Tunnel of Love, il nervoso Tom Petty degli esordi, l’indisciplinata intemperanza dei Replacements.

È sempre ingeneroso e segno di pigrizia intellettuale basare le argomentazioni critiche riguardanti un album sulla sua lunghezza e sulla quantità al di sopra della media delle sue tracce. Va da sè che un potenziale doppio – ricordiamo che Chris è disponibile al momento solo in streaming, mentre una sua uscita in formato vinile è prennunciata ma non ancora del tutto confermata – può presentare canzoni più o meno riuscite e memorabili, perdendo il beneficio della concisione, il vantaggio della sorpresa, il merito della consistenza. Chi ha amato il lato più nascosto e meno ufficiale del suo repertorio apprezzerà una certa urgente ruvidezza del sound, spartanamente curato dallo stesso Adams senza però risparmiare nell’ampio uso ed abuso di chorus e riverberi vari. Un esperienza d’ascolto ben diversa rispetto alla raffinatezza ed alla cura del dettaglio che in fase di produzione è stata applicata ai suoi due più prossimi predecessori. Lì il coinvolgimento di Don Was si era fatto sentire ed aveva decisamente dato i suoi frutti, rendendo quei dischi un vero piacere per le orecchie, almeno per chi scrive. Inoltre, la presenza di un produttore di tale esperienza avrebbe giovato dal punto di vista della sinteticità e dell’impatto complessivo, questo è innegabile.

La vera critica da fare a questa raccolta di canzoni deriva dalla sensazione di stare ascoltando una dimostrazione di grande mestiere più che di vera ispirazione artistica. Ispirazione che soprattutto nel capitolo iniziale della trilogia brillava per profondità di significati. Soprattutto i testi non sorprendono per arguzia, sottile umorismo e pregnanza di osservazione, tutte qualità ben evidenziate in altri episodi della lunga discografia del rocker e qui apparentemente soffocate da un eccesso di autocommiserazione, comprensibile ma non esattamente garanzia di buona qualità di scrittura. A dispetto di questo, sia ben chiaro, le highlight e gli spunti interessanti non mancano: la title-track, il zig-zagante riff chitarristico di Take It Back, le sfuriate viscerali di Flicker in the Fade, So Helpless e Don’t Follow (bonus track presente nella versione disponibile per una sola settimana in download tramite il sito della label PAXAM), ed ancora il country rivisitato (alla maniera dei gia citati Cold Roses e JCN) con malinconica dolcezza di Crooked Shake e Moving Target, l’elegante arrangiamento d’archi di Was I Wrong, l’atmosferica Schizophrenic Babylon e la nostalgia “smithsiana” delle chitarre di About Time e Say What You Said – nostalgia che fa parte di un sapiente gioco di rimandi, riferimenti, (auto)citazioni, omaggi ed amiccamenti che chi segue fedelmente Adams conosce e probabilmente ha anche imparato ad apprezzare. Bisogna comunque notare come, paradossalmente, nella sua mancata omogeneità questo album può rappresentare un punto di partenza ideale per chi a spizzichi e bocconi voglia accostarsi al suo repertorio, per poi approfondirne i vari singoli livelli, andando alla vera sostanza. Il fatto che sia disponibile esclusivamente a costo zero su tutti i principali servizi di streaming non può che motivare ulteriormente.

Dopo mesi di concerti virtuali via social network, Adams ha annunciato a partire dalla metà di maggio una serie di cinque esibizioni acustiche da tenersi in prestigiose location, quali la Carnegie Hall ed il Beacon Theater di NYC, quasi a suggellare nella maniera a lui più congeniale questa sequenza di uscite discografiche e segno di un ritorno in carreggiata per nulla dato per scontato ma ancora possibile. Solo il tempo ci dirà se tutto questo rappresenta un ultimo giro d’onore fuori tempo massimo o l’inizio di una nuova fase artistica di rilievo.  

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