Pinegrove - 11:11 (2022)

 di Fabio Marco Ferragatta

Se già il titolo, “11:11”, potrebbe tranquillamente riferirsi ad un’indicazione temporale, la cosa non si ferma lì, perché il quinto album dei Pinegrove racchiude in sé un muoversi all’interno del tempo che è una delle tante caratteristiche distintive che lo caratterizzano.

Tanti sono i significati che Evan Stephens Hall attribuisce alla creazione nuova sua e dei suoi sodali Zack Levine, Sam Skinner, Megan Benavente e Joshua F. Marré, ma io non riesco a levarmi dalla testa questo senso di spazialità cronologica che scaturisce dalla gestione musicale e lirica dell’album. Se da una parte la sensazione di trovarci negli anni ’90, stretti tra Uncle Tupelo, American Football e Mineral è fortissima, dall’altra, seguendo le parole che il cantante/chitarrista inanella con bravura sconcertante siamo saldi in questi nuovi anni Venti, strangolati da un mondo che si avvia verso la distruzione (e la causa siamo noi) e un’interiorità devastata da ben prima che il Covid si palesasse (“When corona hit, I was already feeling pretty out of it / Frustrated with my self, frustrated with my fellows / All of them meant well”, canta Evan in Respirate).

“11:11” è un concatenarsi di melodie, un fiorire continuo di armoniose possibilità in cui le dinamiche sono lo spettro più ampio immaginabile in quello che è il cammino della Terra e degli esseri umani. Gli strumenti sono tanti e tutti orchestrati e indirizzati alla solennità, quella che riesce a fondere l’arte di parlare tanto politicamente, quanto volgendo lo sguardo ai propri demoni, in una cascata di relazioni che si sgretolano, immersi nella natura, diventandone parte, come fosse l’unica cura alle miserie di una vita, ma che infine non ci cura, forse ci abbraccia solo, e se la mandiamo in mille pezzi nulla rimarrà cui appellarsi. È proprio questa malcelata rabbia a espandersi in Orange e Habitat che, forti del loro intrinseco dolore, esplodono senza deflagrare.

Il bello, o meglio di nuovo, una delle tante cose belle del lavoro è come le armonie vocali di Evan portino naturalmente a essere ripetute, cantate assieme a lui, e non un solo brano è esentato da questa modalità, ma se prendete Alaska e la immaginate composta e lanciata in altri anni (ancora una volta, il tempo) oggi la canteremmo abitualmente, e questo fa la differenza quando si trattano temi delicati, poiché non sempre siamo portati a renderne conto mnemonicamente anche quando siamo sovrappensiero, e proprio così lì resteranno divenendo importanti.

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