Little Richard: la rocambolesca storia dell’architetto del rock’n’roll

di Luca Divelti

Non poteva crederci: quella pistola puntata che fissava terrorizzato, era rivolta contro di lui. Larry era sempre stato il suo “fratello”, quello con cui condividere lavoro e successi, sbornie e risate, sconfitte e confidenze. E droghe, soprattutto droghe. E proprio per la disperazione di non avere soldi per comprarsi la roba, Larry era arrivato a minacciarlo, urlandogli contro di dargli tutto ciò che aveva.

Mentre sentiva il sudore freddo corrergli per la schiena e percepiva la pesantezza del dito sul grilletto, Richard si ricordò di avere in tasca un po’ di contanti: tremante, piagnucolante, con le tempie che battevano scatenate, li tirò fuori.

Larry prese i soldi: abbassò quegli occhi scuri come biglie nere e l’arma, per poi correre via biascicando qualcosa, a caccia di un effimero sollievo al suo tormento. Richard sentiva la testa che gli scoppiava: si tastò freneticamente, cercando di una ferita che sapeva non esistere e dopo aver ringraziato il Signore come non faceva da tempo, si mise a piangere sconsolato.

Decise subito che era finita: basta droga, basta festini, basta tutto!

Se il Signore aveva deciso che doveva continuare a vivere, allora non poteva tirarsi indietro: non era possibile servirlo coniugando i vizi e la sregolatezza della rockstar. Richard Wayne Penniman non sarebbe stato più, come si definì una volta, “l’innovatore, il creatore, l’emancipatore e l’architetto del rock’n’roll”: la carriera di Little Richard, tanto presuntuoso quanto talentuoso, terminava apparentemente così, in un giorno qualunque del 1977.

Cantante e pianista elettrizzante e fin troppo sessualmente esplicito, Little Richard sconvolse con tutta la sua potenza la scena musicale americana degli anni cinquanta, che prese letteralmente a schiaffi.

Archetipo del frontman lascivo e padre putativo dei vari James Brown, Mick Jagger, Prince, David Bowie e di qualsiasi altro artista volesse incendiare le folle, Little Richard non nascondeva la sua omosessualità, ma la cavalcava spavaldo e intrepido, dimenandosi e urlando i suoi “woo” su ritmi indiavolati.

Prima di diventare nel 1955 una delle punte di diamante del rock’n’roll, Richard aveva vagato senza meta alla ricerca di ingaggi di fortuna per sé e il suo pianoforte, cercando un’occasione per svoltare che non sembrava arrivare: troppo eccentrico, eccessivamente estroso, di difficile collocazione musicale e, in definitiva, fin troppo “nero” negli atteggiamenti.

Anche se le apparenze, le trasgressioni e le malcelate preferenze sessuali sembravano dire il contrario, Richard veniva da una religiosissima famiglia della Georgia, che aveva messo al mondo dodici figli e gli aveva trasmesso un’intensa fede, tanto che da piccolo immaginò di diventare un sacerdote.

Accanto alla spiritualità era cresciuta anche la passione per la musica, supportata da un talento precoce e una voce vivace e indomabile, che Richard usava per cantare inni sacri in chiesa e brani sguaiati in strada: a Macon tutti conoscevano quel ragazzo soprannominato Little Richard (anche se basso proprio non era), che non era proprio in grado di darsi un contegno, si vestiva in maniera equivoca e si esibiva come un clown ogni volta che ne aveva occasione.

Era troppo evidente per tutti, da come si vestiva e ammiccava, che i brani indirizzati al gentil sesso erano in realtà rivolti agli uomini, ma questo non gli evitò di vincere un concorso musicale e un contratto discografico nel 1951.

Anche se le porte dello show business gli si spalancarono presto, gli inizi della carriera di Little Richard non lo portarono da nessuna parte e si trovò spiaggiato in pochi anni dentro una cucina di un ristorante come sguattero. Lì, dove spesso era umiliato dal suo capo che si divertiva a deriderlo, un Richard disperato e con le spalle al muro, capì che doveva trovare una via di fuga e di riscatto.

L’occasione giunse inaspettata grazie a Bumps Blackwell, già produttore di Ray Charles e Quincy Jones, che lo chiamò per un’audizione nel settembre 1955 con il progetto di incanalarne la furia prodotta dal vivo. Durante l’infinita sessione di registrazione che seguì, in cui le idee di Blackwell cozzarono spesso con la sua indole anarchica, la frustrazione di Richard raggiunse quella vissuta nella sua esperienza da lavapiatti: per scaricare la tensione di ore per lo più improduttive, il ragazzo si lanciò con il pianoforte in uno sfogo pieno di insulti, urla e soprattutto uno scioglilingua che colpì Bumps.

A-wop-bom-a-loo-mop-a-lomp-bom-bom era l’onomatopea con cui lo sguattero Richard rispondeva al suo capo prepotente quando veniva irriso e su cui il cantante Richard aveva costruito un brano che magnificava la bellezza del posteriore femminile (o quantomeno così sembrava): Blackwell sentì che c’era qualcosa di molto interessante su cui lavorare, si fermò alla filastrocca iniziale e decise di dare un colpo di spugna al resto.

Convocò Dorothy LaBostrie, una cantautrice con cui collaborava, e le chiese di ripulire la canzone dalle allusioni sessuali più o meno evidenti, anche perché bastava lo scioglilingua urlato da Richard a far passare il messaggio. Dorothy tolse tutti i riferimenti omosessuali e, ispirata dal nuovo gusto di gelato che tanto le piaceva prendere nel chioschetto vicino casa, trovò anche un verso che andava a nozze con l’attacco di Richard: Tutti Frutti, all rooty.

Di colpo quel saltimbanco schiamazzante, con il suo liberatorio A-wop-bom-a-loo-mop-a-lomp-bom-bom, smetteva di essere una promessa quasi mancata, per diventare il re delle classifiche: Tutti Frutti, pubblicata all’inizio del 1956, sbancava le classifiche e sovvertiva il sistema.

Little Richard diventava così, quasi di colpo, da lavapiatti senza una vera prospettiva, la stella più luminosa e contraddittoria della primissima stagione del rock’n’roll: oltraggioso, lascivo, seducente, non classificabile (non solo musicalmente) e persino nero, Richard mise davvero in crisi le famiglie e i benpensanti dell’epoca, che vedevano in lui una seria minaccia per i ragazzi.

Il primo rock’n’roll era spregiudicatezza, vitalità, gioia di vivere, eccessi fin troppo carnali: Little Richard li fuse con una necessità di spiritualità che sarebbe sempre rimasta nel rock successivo, che gli deve tantissimo.

Il suo modo di suonare, così selvaggio e ammiccante, il suo isterismo vocale e soprattutto quell’ambiguità sessuale ostentata come un trofeo fecero detonare la nuova era della musica pop e aprì un varco in cui si infilarono tutti coloro in cerca di una svolta, come Chuck Berry, Fats Domino e Bo Diddley.

Per la prima volta i musicisti neri s’imposero di invadere il mercato parallelo, quello degli acquirenti bianchi, creando un prodotto che fosse appetibile e rendesse il blues più edulcorato e vicino ai gusti pop dei teen-ager: nasceva il rock’n’roll e la storia della musica non sarebbe stata più la stessa.

Con il rock’n’roll, infatti, venivano meno le barriere tra neri e bianchi: i giovani potevano finalmente conoscere e apprezzare anche gli artisti di colore, neanche troppo tempo prima ghettizzati dal mercato blindato per categorie razziali, e consentivano il lento inizio di un processo di integrazione ancora incompiuto.

I discografici, dopo un primo momento di comprensibile spaesamento dovuto all’incredibile scossa tettonica del rock’n’roll e dei suoi nuovi eroi, non tardarono a riprendere in mano il business. Consapevoli delle enormi potenzialità del genere e del suo pubblico, le case discografiche non fecero altro che applicare le regole con cui si erano mosse da sempre, sottraendo ancora una volta le intuizioni dei musicisti neri per rivenderle, smussate e ammorbidite, ai bianchi.

D’altra parte non era stato Sam Phillips, affascinato dalla grande scena blues della Chicago di Muddy Waters, Howlin’ Wolf e Little Walter, a profetizzare cinicamente che se avesse trovato un bianco con la voce di un nero sarebbe diventato milionario?

La sua Sun Records trovò in Elvis Presley la sua gallina dalle uova d’oro e il rock’n’roll finalmente il suo agognato profeta bianco, seguito a ruota da Jerry Lee Lewis e Buddy Holly, mentre invece i primi portabandiera neri del genere si videro sfilare paternità e canzoni.

Little Richard fu uno dei più polemici e non accettò di vedersi sottrarre il centro della scena tanto faticosamente conquistato: se c’era qualcosa che lo faceva impazzire, era vedere che le versioni ammorbidite delle sue canzoni assegnate ai rockers bianchi finivano in classifica in posizioni più alte rispetto alle sue.

Lucille, Good Golly, Miss Molly e Long tall Sally confermarono intanto la straripante stagione creativa del pianista, che, paradossalmente, invece di acquisire sicurezza da ciò, sentiva incrinarsi qualcosa dentro: la fede religiosa, da sempre un punto focale della sua vita ben prima che diventasse una rockstar, aveva pian piano scavato un solco tra Richard Pennyman e il suo borioso e chiassoso alter ego.

Durante un tour in Australia nel 1957 fu preso dal panico: convinto che l’aereo che lo portava da Melbourne a Sydney stesse per cadere da un momento all’altro, si chiuse in preghiera e vide degli angeli sostenere il mezzo. Una volta a Sydney, prima del suo concerto, vide una palla di fuoco nel cielo: nonostante il bagliore fosse il satellite artificiale Sputnik lanciato pochi giorni prima, lui restò fermo nel vedere un segno di Dio.

La situazione precipitò velocemente: a Newcastle, prima di uno show, informò la sua band che si ritirava dalle scene e si sarebbe dedicato allo studio della teologia, alla predicazione e alla musica gospel.

La decisione lasciò Blackwell senza il suo artista di punta. Non era facile sostituire l’architetto del rock’n’roll, ma comunque qualcosa andava fatto: così un semisconosciuto Larry Williams, portato nella scuderia proprio da Little Richard, venne lanciato sul mercato al suo posto.

Larry riuscì a piazzare qualche successo e a replicare in parte la grande ascesa dell’amico, ma non seppe fermarsi come Richard: nel 1959 fu arrestato per possesso di stupefacenti e condannato a tre anni, compromettendo la propria carriera quasi definitivamente.

Gli anni sessanta erano molto diversi da quei formidabili primi anni del rock’n’roll, ma forse non era passato troppo tempo da Tutti Frutti. Richard, inquieto e di nuovo combattuto tra fede e musica, decise di tornare, ma si rese conto presto che il treno del successo forse non passa sempre alla stessa stazione.

Ritrovò Larry, che gli fece da produttore e lo reintrodusse anche a certi vizi interrotti, ma mai del tutto dimenticati. Fino a quella sera del 1977 e a quella pistola puntata.

Tre anni dopo il corpo di Larry Williams fu rivenuto senza vita e con evidenti segni di arma da fuoco: la famiglia del produttore sostenne subito che dietro ci fosse un regolamento di conti per questioni di droga e che qualche spacciatore esasperato avesse fatto della vicenda un esempio, mentre la polizia, poco interessata alle questioni di droga, archiviò l’accaduto come un semplice “suicidio”. 

Durante le esequie, in una Los Angeles distratta e prepotentemente proiettata verso gli scintillanti e labili anni ottanta reaganiani, Richard intonò Precious Lord, dedicandola all’amico di un tempo. Finita la funzione, mentre i pochi presenti se ne andavano, sentì che il peggio era passato: la fede lo aveva aiutato in quegli anni a superare ancora una volta l’incapacità di coniugare spiritualità e carnalità e a scrollarsi di dosso per sempre i suoi vizi.

C’era ancora una possibilità per Little Richard: lui e il rock’n’roll avevano ormai fatto pace. 

Questa storia fa parte del libro:
Black Songs Matter
Trenta artisti di colore che hanno cambiato la storia della musica

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