di Francesco Amoroso
L’anno scorso ho fatto la conoscenza di Hannah Merrick e Craig Whittle in maniera piuttosto casuale, come accade quasi sempre: passeggiavo nelle vie meno trafficate della rete, soffermandomi qua e là, incuriosito da una copertina attraente, da un passaggi di chitarra piacevole, da una voce interessante e, all’improvviso, mi sono trovato al cospetto di Crème Brûlée. Ipnotizzato da 6 minuti e 28 secondi di chitarre alternativamente eteree e abrasive e da una voce graffiante e carezzevole (oggi abbondiamo di ossimori) non ho potuto fare a meno di innamorarmene istantaneamente e avere il desiderio di approfondire la conoscenza dei suoi artefici.
Ho scoperto che Craig, nato e cresciuto a Liverpool, pare avesse visto Hanna, arrivata in città dal Galles per studiare, per la prima volta esibirsi a un concerto e, da allora, aveva sempre pensato che avrebbe voluto fare musica con lei. E come biasimarlo?
E ha appreso che ci sono voluti altri due anni prima che si incontrassero davvero, mentre entrambi lavoravano nello stesso pub.
Tutto questo, naturalmente, non lo sapevo quando li ho incontrati per strada che cantavano Crème Brûlée ma, da allora, non li ho più persi di vista.
L’EP di debutto del duo di Liverpool, Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine uscito poco più di un anno fa, faceva presagire davvero grandi cose, eppure, nonostante fosse uscito per la City Slang (etichetta con discrete capacità di marketing) per un po’ è rimasto un piccolo segreto condiviso tra pochi che, pian piano, con il passaparola, ha cominciato a diffondersi fino a giungere alle orecchie di un buon numero di appassionati.
Così l’album d’esordio di King Hannah (“I’d always had King Hannah in my head as a name,” racconta Merrick “even before I met Craig.”) era piuttosto atteso.
Quando è uscito, a inizio marzo, è stato un fiorire di recensioni (moderatamente) entusiastiche e di condivisioni dei loro brani sui social. Insomma di I’m Not Sorry, I Was Just Being Me hanno ormai parlato tutti e, come al solito, chi ha conosciuto Hannah e Craig dall’inizio (o quasi) si trova un po’ spiazzato, quasi indeciso tra l’esultare per il successo di una band che si sente vicina per tanti motivi e un pizzico di inevitabile gelosia.
Personalmente non ho avuto, probabilmente a causa delle aspettative altissime, un impatto particolarmente entusiasta con i dodici brani di questo esordio ma, dopo due mesi di ascolti ininterrotti (i piccoli privilegi che chi scrive di musica mantiene anche nel 2022…) non posso che dirmi totalmente avvinto dai suoi suoni.
Senza dubbio quest’anno potrà riservare degli album di debutto più immediati, più d’impatto e, magari, più innovativi, ma sarà difficile trovarne uno che suoni così sicuro di se stesso e a suo agio nella propria pelle.
Se, infatti, l’EP di debutto faceva presagire grandi cose, questo esordio sulla lunga distanza, conferma appeno tutte le potenzialità del duo di Liverpool. E, probabilmente, è proprio la grande maturità sia compositiva che sonora a rendere I’m Not Sorry, I Was Just Being Me meno d’impatto rispetto agli esordi: canzoni come la già citata Crème Brûlée o Meal Deal colpivano per la loro sfrontata sicurezza e per il talento che traspariva dalle loro note, ma con i brani del nuovo album ci troviamo di fronte esattamente a ciò che ci aspettavamo. Tuttavia poiché ciò che ci aspettavamo da King Hannah era qualcosa di assolutamente brillante e convincente, sembra davvero assurdo lamentarci per la mancanza di sorprese.
Le sonorità che compongono l’album sono impetuose e cullanti, inebrianti e stordenti, confortevoli ma sempre inquiete.
Le abrasive linee di chitarra di Craig Whittle e la voce già inconfondibile di Hannah Merrick, suadente, rauca e graffiante, dipingono scenari sonori intimi e vorticosi, tanto che ognuna delle canzoni che compongono l’album, piene di oscurità, rabbia e voglia di riscatto, ipnotiche e carezzevoli in egual misura, riesce ad essere, nonostante la voluta omogeneità dei suoni, immediatamente riconoscibile.
Gli scarni e misuratissimi arrangiamenti non stravolgono mai i brani e, anzi, li propongono praticamente nudi, permettendo loro di suonare sentiti e sinceri.
Hannah Merrick, a sua volta, ha il coraggio di cantare testi visceralmente onesti (in All Being Fine racconta dei sui problemi di enuresi notturna in infanzia: “We saw a nurse multiple times / She said, ‘You’ll grow out of it in no time / All being fine, all being fine’”), che raccontano storie ordinarie e che non sfociano mai nel melodramma e che non sono scevri da ironia e calembour (vedi Foolius Caesar o The Moods That I Get In).
Le canzoni di I’m Not Sorry, I Was Just Being Me, così, suonano a tratti minacciose e, invece, nascondono una fragilità e una sensibilità che ce le rende ancora più affini e amabili. Merrick e Whittle prendono a piene mani dalle sonorità e dai toni della noir americana e del southern gothic , ma, ben lungi dall’essere degli impostori o degli imitatori di Nick Cave e PJ Harvey, preferiscono applicare questa formula sonora alla loro quotidianità.
Nascono così passaggi esilaranti e veri e propri anticlimax come quando, nel crescendo emotivo della catartica The Moods That I Get In, Hannah canta “If you do not like what I’m singing about / Well, then you really do not have to listen / You can just turn me off” (che, quanto a attitudine, fa il paio con il titolo dell’album), oppure quando Merrick cita Steve Carell e i go-kart. E, ancora, quando in It’s Me and You, Kid, il brano più immediato e quello che chiude l’album con una nota quasi esultante, i due raccontano, con ironia e tenerezza, la loro “storia di origine”: “I thank god the day we met in the gross bar/ We’re doing it, so that we can live our whole lives just doing this”.
Ma, liricamente, il punto più alto, perfetta sintesi di angst e sarcasmo, è raggiunta in Big Big Baby, brano nel quale la protagonista recrimina contro l’infantilismo di un ex boyfriend. E se pensate che un testo così potrebbe risultare banale, vi sbagliate di grosso. Sentire Hannah cantare con voce inquietante e tuttavia impassibile: “I heard you got a lady pregnant, well I can only wish her well./ ‘Cause soon you’ll have a bigger baby, in the family than yourself./ …I hope you choke on, on a dumpling, at least that would be mildly fun./ And more exciting than just sitting, watching you eat them one-by-one” non ha prezzo.
Non c’è dubbio che le influenze siano evidenti, dai Mazzy Star fino a PJ Harvey, dai Red House Painters allo slowcore (Ants Crawling on an Apple Stork, cantata da Whittle), con un tocco di Portishead (Foolius Caesar), ma risultano filtrate da un talento e da un songwriting così personale, che, in breve, ci si dimentica di questo inutile giochetto di rimandi e ci si ritrova solo al cospetto della musica di King Hannah.
I’m Not Sorry, I Was Just Being Me è, così, un album vero, ispirato e maturo, sicuro di sé, audace e ambizioso.
E se “autenticità” è una qualità completamente intangibile su cui si potrebbe discutere all’infinito (c’è chi – e ormai sono in tanti – non riconosce neanche che, in musica, questa possa essere considerata una qualità), non riesco a non pensare che Hannah e Craig e la loro creatura King Hannah ne siano provvisti in abbondanza. E, da queste parti almeno, rimane uno straordinario merito.
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