Charlie Parker: l’uomo dai tanti eccessi che cambiò il jazz

 di Luca Divelti

Dopo fasti lunghi un decennio, lo swing negli anni Quaranta si era involuto e non era più piacevole da suonare. Non erano pochi i jazzisti dell’epoca, soprattutto i più giovani e di colore, che erano arrivati a pensarlo: per loro lo swing aveva perso di interesse dopo che il grande successo delle formazioni composte di soli bianchi (e il conseguente approdo a Hollywood e alle sue regole) ne avevano imbolsito la volontà di rinnovamento e lo avevano condannato a una staticità musicale immutabile. 

L’obiettivo di questi musicisti si concentrava quindi nell’andare oltre lo swing e riconsegnare il jazz ai musicisti, abbandonando il sentiero del ballo per quello del puro ascolto. Da queste premesse nasceva il bebop, un nuovo stile musicale in cui i jazzisti sondavano territori diversi da quelli consueti, virando decisamente verso il blues e su estesi assoli ricchi di variazioni armoniche.

I costanti cambi di accordi, eseguiti a velocità inaudite, portarono alla ribalta artisti dallo spiccato carattere virtuosistico, che non si fecero particolari problemi per la bassa rilevanza commerciale delle loro composizioni, facendone anzi un motivo d’orgoglio.

Il bebop non era solo uno scatto in avanti di musicisti annoiati o la mera volontà di rendere più cerebrale e meno accessibile il jazz, ma una presa di posizione di alcune stelle emergenti che non volevano più essere identificate come semplici intrattenitori per un pubblico di bianchi e miravano a distinguersi nettamente dallo status quo su cui si era retta fino a quel momento la scena musicale nera.

Tra i giovani jazzisti che abbracciarono e plasmarono questo nuovo corso storico emerse la sghemba e ingombrante figura di Charlie Parker, che all’inizio degli anni quaranta si impose per il suo stile dinamico e ricco d’inventiva: il suo sassofono era capace di esplorare melodie e tonalità a velocità vorticose e ben presto Bird acquisì un credito enorme sulla scena jazz.

La genesi del suo soprannome, come per gran parte dei suoi colleghi, è leggendaria e si rifà a quando l’autobus dove Parker e altri musicisti viaggiavano investì un pollo: il sassofonista pretese che il mezzo si fermasse per permettergli di raccogliere i resti del pennuto, che la sera stessa cucinò per cena.

Malgrado il soprannome nascesse più che altro per prendere in giro un ragazzo di Kansas City che non aveva saputo rinunciare a un pasto gratis, con il tempo Bird divenne sinonimo della grandezza di Parker, che sembrava in grado di volare assieme al suo sassofono.

Ma a tarpare le ali della carriera del jazzista incombeva sempre l’ombra della tossicodipendenza: Charlie, in seguito a un terribile incidente, iniziò ad assumere oppiacei da ragazzino, diventando poi schiavo di alcool ed eroina.

Quando non riusciva a pagare gli spacciatori impegnava il suo sassofono o mendicava per strada, ricevendo spesso prestiti da amici e colleghi per tirarsi fuori dai guai. L’incredibile talento di Parker era proporzionale alla sua pulsione autodistruttiva, che compromise spesso sia il rapporto con molti dei suoi più grandi partner (come Dizzy Gillespie), sia la sua carriera, minata dai suoi leggendari eccessi.

Spesso non si presentava alle prove e ai concerti, oppure quando lo faceva non riusciva quasi a soffiare nel beccuccio del sassofono, barcollando disperatamente sul palco, o semplicemente si addormentava: ma nel momento in cui era in serata la sua abilità nell’improvvisare figure melodiche e ritmiche sembrava irraggiungibile.

Anche il rapporto di Parker con il gentil sesso era piuttosto complicato, portandolo a sposarsi e a legarsi con più donne in poco tempo e quasi contemporaneamente. Malgrado fosse incontenibile nei suoi disparati appetiti e la sua vita privata risultasse ingestibile, Bird riuscì comunque a lasciare evidenti tracce del suo talento in alcuni brillanti pezzi come Lover Man, Hot House, All the things you are, Groovin’ high, contribuendo all’affermazione di un nuovo modo d’intendere il jazz.

Nel 1946 Bird e Gillespie furono ingaggiati per alcune esibizioni e incisioni a Los Angeles: la difficoltà a reperire la droga lontano da New York fece aumentare la dipendenza dalla bottiglia di Parker, che oltre a bere smodatamente divenne sempre più ingestibile. Le condizioni mentali di Parker si deteriorarono velocemente ed era evidente a chi gli stava accanto quanto fosse in difficoltà, tanto da costringere il produttore a richiedere per le registrazioni previste per il ventinove luglio la presenza di uno psichiatra.

Lo stato psicofisico di Charlie compromise le sessioni in sala, che si protrassero più del dovuto per le continue interruzioni e reincisioni: a fine giornata uno stremato Bird si trascinò inquieto e particolarmente irritabile nell’albergo in cui alloggiava.

Una volta lì, non fu più in grado di frenare il suo disagio e si abbandonò a intemperanze che lo portarono a gridare e correre nudo per la hall, per poi dare fuoco al letto della sua camera. Parker finì in carcere per atti osceni, incendio doloso e resistenza a pubblici ufficiali e fu in seguito internato nella struttura del Camarillo State Mental Hospital di Los Angeles, sparendo forzatamente dalle scene per sei mesi.

In questo periodo in cui fu costretto a ripulirsi, Charlie riuscì ad allontanarsi dalla sua vecchia routine e a concedersi una vacanza dall’ingombrante Bird, abbandonando lo stress di una vita fin troppo colma di prove, matrimoni, alcool, droga e concerti interminabili. Le placide giornate passate a rilassarsi e a ritrovare un po’ sé stesso lo portarono poi, una volta fuori, a comporre Relaxin’ at Camarillo, in cui profuse la sua gioia di una ritrovata sobrietà.

Il brano non doveva chiamarsi così, ma fu il produttore Ross Russell a imporre il titolo: la serenità e l’equilibrio che pervadeva la composizione convinse sicuramente Russell che l’esperienza al Camarillo non era secondaria, mentre Parker, dal canto suo, non gradiva particolarmente i riferimenti al suo soggiorno forzato.

Relaxin’ at Camarillo catturava in effetti un momento unico nella vita di Parker, di certo il più libero e appagante della sua vita, ma fin troppo passeggero: rientrato a New York, tentò senza troppa convinzione di evitare le vecchie brutte abitudini, che ben presto tornarono a impossessarsi di lui.

Lavorò ancora con i suoi amici boppers, tra i più grandi di sempre, come il giovanissimo Miles Davis, Milt Jackson, Dexter Gordon, Fats Navarro, Kenny Dorham, Max Roach, Bud Powell, Charles Mingus e l’onnipresente Dizzie Gillespie, che provò più volte a convincerlo a ripulirsi, fallendo disperatamente in tutte le occasioni.

Nonostante un equilibrio sempre precario e assai complesso da trovare, Charlie ebbe anche modo di affermarsi definitivamente durante i primi anni cinquanta, quando insieme a una grande orchestra d’archi incise degli album che rivisitavano alcuni standard jazz: il successo commerciale fu un sollievo per le misere tasche di Parker, che però fu accusato da molti suoi colleghi e amici di essersi venduto al mercato.

Ma questo non fu l’unico dispiacere di quegli anni per Bird, che perse sua figlia Pree per polmonite e iniziò a entrare e uscire continuamente dagli ospedali psichiatrici, finendo per far appassire precocemente il proprio talento: chissà se in quei mesi angosciosi il ricordo della pace ritrovata durante il soggiorno al Camarillo gli siano mai balenati in mente.

Il dodici giugno 1955 Charlie Parker moriva mentre guardava la televisione, ucciso da una polmonite, da un’ulcera perforante, da una cirrosi epatica assai avanzata e dai tanti, troppi, eccessi accumulati nella sua breve vita: addirittura il medico legale che per primo stabilì il decesso sostenne che il corpo appariva quello di un uomo oltre la cinquantina, nonostante Parker avesse trentacinque anni.

Il genio dirompente di Charlie Parker sta nell’aver cambiato per sempre il jazz: la sua influenza sul bebop e quindi su tutto il jazz successivo è indiscutibile e chissà quali vette la sua musica avrebbe potuto raggiungere, se la vita di Bird non fosse stata ingabbiata dalle droghe.

Ma d’altra parte gli uccelli, piuttosto che rassegnarsi alle gabbie, preferiscono sempre volare via.

Questa storia fa parte del libro:
Black Songs Matter
Trenta artisti di colore che hanno cambiato la storia della musica

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