Cate Le Bon – Pompeii (2022)
Facile dire art-rock, ma poi cos’è? L’ho sempre trovata una definizione un po’ troppo evanescente, come tutte le catalogazioni, vero, ma questa ancora di più. Ma la musica non è tutta arte? Quella bella, quantomeno.
Questi pensieri ondivaghi si attanagliano precisamente all’ultima fatica di Cate Le Bon, la sesta per la precisione, perché in molti l’hanno liquidata in questo modo, art-rock o art-pop o giù di lì, e per certi versi c’è del vero. Gli echi del primo David Sylvian e dell’esordio dei Chairlift, per citare due esperienze di decenni diversi ma che si rifanno a un medesimo linguaggio sonoro, impregnano certamente “Pompeii”, ma c’è dell’altro. La polistrumentista e producer gallese ha creato un universo in cui è la dignità a farla da padrone, un manifestarsi a metà strada tra l’altezzoso e il giustamente conscio delle proprie capacità in una figura che si gioca tutte le sue carte di perfezione estetica, ma che ha un elemento che la riporta gustosamente sulla terra: il basso. Se non ci fosse quello, il disco suonerebbe un po’ algido, un po’ freddo. E invece proprio dal basso la Le Bon è partita, e in alcune canzoni ciò è molto evidente (in “Moderation” detta la linea melodica al pari, o forse più, del cantato), dando un cuore a “Pompeii”, un muscolo che pompa sangue e umanità in pezzi che invece tirano dalla parte della grazia di atteggiamento.
“Pompeii” è un album registrato proprio nel lockdown del 2020, tornando a casa, a Cardiff da Los Angeles, e vorrebbe rispondere, secondo le intenzioni dell’autrice, alla domanda “Se sentissi che la fine è vicina, quale sarebbe il tuo ultimo gesto?”. In realtà il sentore non è apocalittico, è molto quotidiano, senza slanci di azione ma con una piena pacificazione del dolore: in “Pompeii”, la canzone, canta “Did you see me putting pain in a stone?” come a mostrare di avere intrappolato quel dolore in una pietra, togliendolo da sé, ma soprattutto di averlo spedito oltre, nel dolore universale rappresentato plasticamente dall’ultimo momento delle persone pietrificate a Pompei (“Every fear that I have I send it to Pompeii”). Dalla tragedia insomma ci si salva a poco a poco, attraverso una sorta di apatia decorosa (“Harbour” spiega che “Heavens above don’t care how you’re living”) e un susseguirsi di rapporti che però non si riescono ad afferrare (“You can’t put your arms around it / It’s not there anymore”, annota laconicamente “Running Away”).
Cate Le Bon ha creato un’opera che punta alla perfezione formale che riesce ugualmente a parlare all’ascoltatore, non rimane là in fondo, sullo sfondo, non è per niente artefatta. Ci sono tornato su molte volte in questo mese dall’uscita e tutte le volte “Pompeii” mi ha restituito, assieme a quel senso di salvifica tranquillità, diverse sfaccettature che ho fatto fatica a inquadrare. E’ un album insomma inequivocabilmente definito e, allo stesso tempo, sfuggente e inafferrabile. Cate Le Bon è uno spirito libero, non si fa ingabbiare da nessuno. Men che meno dai recensori che la vorrebbero solo “art-rock”.
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