(Sittin’ on) The dock of the bay: la canzone perfetta di Otis Redding

 di Luca Divelti

Per Otis Redding la pace e la tranquillità di quei giorni sembravano irreali dopo le fatiche al Monterey Pop Festival, in cui aveva messo in mostra la sua grande carica dal vivo e fatto ondeggiare tutti i presenti: affittare una casa galleggiante a Sausalito, in quell’estate così speciale del 1967, lo aveva però rimesso al mondo.

Il sole vivido della California, la luce intensa e i colori di quel mare che lo cullava dolcemente e le voci dei pescatori che gli facevano compagnia mentre raggiungevano il molo scortati da stormi di gabbiani indolenti, resero quel suo breve soggiorno sulla costa occidentale indimenticabile.

Dall’inizio del 1966 non si era mai fermato, rapito da una tournée infinita che gli aveva fatto toccare tutti gli angoli degli Stati Uniti, non disdegnando anche l’Europa, dove si era esibito in Francia e Gran Bretagna.

Tutto lo stress di quegli ultimi mesi frenetici abbandonò la presa: d’un tratto non c’erano più interviste, lanci promozionali, tour manager, duetti, concerti e una carriera che lo stava finalmente imponendo all’attenzione non solo degli afroamericani, ma anche dai ragazzi bianchi.

Alla Stax, la sua casa discografica, erano convinti da tempo che quel mix incredibile di talento debordante, presenza carismatica e voce seducente fosse destinato prima o poi a emergere come la stella polare della musica pop e a travalicare le barriere razziali che dividevano i gusti del pubblico: Otis Redding era in quel momento la personificazione della soul music, il riconosciuto re del Memphis Soul e se ne stavano accorgendo un po’ tutti.

Il merito era anche della sua attenzione verso l’altra musica, quella realizzata dai suoi colleghi bianchi, che studiava e immetteva nel suo repertorio: il successo della sua versione di Satisfaction, presa gentilmente in prestito dai Rolling Stones, sembrava voler ricambiare quanto fatto dai giovani gruppi blues rock inglesi, che stavano attingendo a piene mani alla grande riserva della musica nera.

Il suo magnetismo crudo in scena era diverso da tutti i suoi predecessori, che non possedevano quella fisicità così imponente e perentoria, capace di catturare l’attenzione e di imporsi sul palco senza alcun filtro: i lunghi passi sicuri, i pugni alzati al cielo e la gestualità tipica dei “fratelli” richiamavano quel ghetto nero che si preferiva nascondere.

In un’America paranoica e ancora in gran parte convinta che gli afroamericani fossero pronti in ogni momento a rapire le donne bianche e a stuprarle, Otis Redding sbatteva in faccia ai bianchi il loro incubo peggiore: il nero che non si faceva problemi a cantare di fronte a loro con la sfacciata consapevolezza di essere un uomo attraente e per niente disposto a sminuire la propria capacità seduttiva.

Nessun cantante afroamericano, tra quelli che avevano un seguito bianco, si era mai mostrato così fisicamente libero in scena: l’unica eccezione fu Chuck Berry, che però alla distanza pagò questa sua linea, subendo un’assai discutibile condanna per “scopi immorali” all’inizio degli anni sessanta.

Little Richard era anch’egli una forza della natura, ma la sua rimarcata effeminatezza ne depotenziava la carica erotica; Ray Charles con quella voce calda e ipnotica riempiva la mente di immagini e sensazioni, ma era pur sempre un non vedente; Fats Domino poi, disinnescava qualsiasi “pericolo” fin dal nome, rimarcando la sua simpatica e gioviale corpulenza; Sam Cooke si muoveva sicuro e raffinato, ma meno ammiccante di quanto potesse permettersi.

Proprio nel solco di Sam Cooke, che aveva mostrato a lui e a tanti altri la via morbida del soul, aveva scritto alcune gemme come Respect e I’ve been loving you too long, ma quello che sentiva mancargli era un brano che potesse fare da manifesto alla sua idea di musica. Ciò che inseguiva doveva essere capace di unire il rock, il pop e l’r&b, senza però rinunciare al rigoroso e fiero carattere nero: se avesse trovato la formula per scrivere quella canzone, per lui assai vicina alla perfezione, forse avrebbe anche raggiunto il suo primo Numero Uno in classifica.

Così, mentre fantasticava e strimpellava pigramente la chitarra, provò a raccogliere quei momenti di relax a Sausalito e fissò un paio di frasi assieme a una melodia: chissà che il tutto non gli sarebbe stato utile per un brano. Magari quello che cercava da tempo.

Ricominciò la sua routine di concerti in giro per gli Stati Uniti, ma quell’abbozzo di canzone gli continuò a ronzare in testa per mesi, mentre ponderava anche cosa fare della sua carriera. La Stax, nonostante lo considerasse assieme a Carla Thomas la sua punta di diamante e lo riempisse di attenzioni, cominciava a stargli stretta. Era evidentemente stanco di sentirsi ingabbiato in un genere predefinito e di viaggiare costantemente da un paese all’altro, ma era soprattutto l’attrazione per quello che facevano Bob Dylan e i Beatles, capaci di allargare a dismisura i confini del pop, a metterlo a disagio: sapeva di essere in grado anche lui di imprimere nuovi orizzonti alla musica e voleva assolutamente provarci, senza alcuna restrizione.

Sul finire di novembre presentò una nuova canzone alla sua etichetta e ai suoi collaboratori: tra essi svettavano Steve Crooper e Donald “Duck” Dunn, che, assieme alla band di supporto Bar-Kays, erano il cuore pulsante della sua musica ed erano sempre pronti a trasformare le intuizioni di Redding in brani di sicura presa.

Otis, però, non era pronto alla reazione dei suoi sodali: la canzone con cui si presentò, con il titolo Dock of the bay, non piacque quasi a nessuno. Assai diversa dalle precedenti composizioni, con una melodia fin troppo malinconica e dallo stile che si discostava eccessivamente dal tipico sound della Stax, Dock of the bay non ebbe il riscontro sperato da Redding, ma il cantante tirò dritto e decise di inciderla comunque, convinto di avere finalmente l’agognata Numero Uno.

Non ci misero molto tempo lui e Crooper a definire il pezzo, che divenne (Sittin’ on) The dock of the bay e venne registrato il sette dicembre: appagato dal risultato, Redding ripartì subito per i suoi impegni, che prevedevano alcuni concerti prima della pausa natalizia.

Durante il volo che lo avrebbe portato assieme ai Bar-Kays a Madison accadde però l’irreparabile: con la complicità del maltempo, il pilota perse il controllo a pochi chilometri dall’arrivo e l’aereo si schiantò sul lago di Monona, ghiacciato dal gelo invernale del Wisconsin.

Il re del Memphis Soul moriva così a ventisei anni il dieci dicembre 1967, assieme a quasi tutti i passeggeri di quel volo disgraziato: a salvarsi fu solo il trombettista dei Bar-Kays Ben Cauley, svegliato di soprassalto dalle urla dei suoi colleghi prima dello schianto, che ebbe la prontezza di slacciarsi la cintura di sicurezza e di uscire dalla fusoliera danneggiata dall’impatto, evitando così di essere inghiottito dalle acque gelide. Le urla dei suoi sette compagni di viaggio, intrappolati nei loro sedili, avrebbero costellato per anni i suoi incubi di sopravvissuto.

La notizia della scomparsa di Redding fu sconvolgente per la tragicità e per la modalità: il suo corpo, come quello degli altri ospiti del volo, fu ripescato con notevole difficoltà dai sommozzatori, che furono limitati dalle temperature proibitive del lago.

Dopo i funerali di Redding, cui accorsero a migliaia, la Stax doveva stabilire cosa fare del materiale inedito: c’era soprattutto da decidere il destino di (Sittin’ on) The dock of the bay, incisa solo pochi giorni prima dell’incidente e che sembrava l’ideale testamento dell’artista, così fermamente convinto di avere finalmente trovato la sua canzone perfetta.

La Stax, nonostante i dubbi sulla bontà della composizione che ancora mordevano, decise di pubblicare la canzone nel gennaio 1968, a seguito di un ultimo intervento di Crooper in studio: furono inseriti nel brano i versi dei gabbiani e il rumore delle onde, assecondando così la volontà dello stesso Redding, desideroso di ricreare il più possibile la scena vissuta a Sausalito.

Le strofe costruite per immagini nitide di calma interiore, che si sovrappongono alla distensione e alla tranquillità della musica, trasportano l’ascoltatore accanto a Redding, in quella baia, rapito da quel paesaggio semplice e quasi idilliaco. L’importanza data alle parole e all’atmosfera mostravano quel nuovo approccio che Redding cercava e che doveva farlo avvicinare a Dylan e ai Beatles: soprattutto Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band gli aveva mostrato in quell’estate del 1967 che le porte della creatività potevano essere illimitate.

(Sittin’ on) The dock of the bay divenne l’epitaffio di una carriera breve e intensa, che aveva mostrato lampi di genio assoluto e di voglia di superare le barriere prestabilite: la canzone raggiunse la cima delle classifiche, diventando l’agognata Numero Uno.

Otis Redding non poté godersi la soddisfazione di dire ai suoi scettici collaboratori che aveva ragione lui: in quei soli cinque anni di carriera, in cui la sua voce passava dai sussurri soul alle grida passionali, aveva lasciato un segno e quel brano sarebbe stato l’inizio di una nuova fase, purtroppo incompiuta.

(Sittin’ on) The dock of the bay riusciva a rendere palpabile la solitudine dell’uomo assediato dall’urgente necessità di trovare un proprio posto nel mondo e allo stesso tempo assorto a contemplare la propria vita spesso fatta di catene e obblighi: solo l’ipnotico suono della marea e quel sole rassicurante riescono a lenire l’inquietudine che assedia l’animo, fino a far fischiettare.

In quella baia, immerso nel sole accanto agli stridii dei gabbiani fino a sera, Otis Redding aveva trovato il suo posto ed era un uomo libero.

Questa storia fa parte del libro: Black Songs Matter - Trenta artisti di colore che hanno cambiato la storia della musica

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