AA.VV. Summer Of Soul (...Or, When The Revolution Could Not Be Televised) OST (2022)

di Francesco Pandini

Ci vogliono meno di due minuti perché “Summer Of Soul” agganci anche lo scettico, il cinico e il distratto: è il tempo che serve a uno Stevie Wonder appena diciannovenne per lanciarsi in uno scatenato quanto inatteso drum solo, furente di gioia e rivoluzione. Con questa scelta - l’idea di mostrare un lato nascosto di un’icona della black music pronta a farsi adulta e spiccare il volo - Ahmir Khalib Thompson (aka Questlove, batterista dei Roots) mette subito in chiaro che la sua prima fatica da regista è ben più di un semplice documentario che recupera le memorie di un festival dimenticato. Sì, certo: per le due ore del film si respira un autentico senso di meraviglia e scoperta, alla maniera che gli appassionati di musica avranno imparato a conoscere con “Searching For Sugar Man”; per il cinefilo, invece, sarà automatico associare il salvataggio rocambolesco di materiale audiovisivo alle pellicole abbandonate sul fondo di una piscina ghiacciata alla base di “Dawson City: Frozen Time”, ampia riflessione di Bill Morrison su industria cinematografica delle origini, corsa all’oro e, in ultima istanza, capitalismo. Ma quelle immagini perdute di un artista enorme tracciano un punto interrogativo sul volto di chi osserva: com’è possibile che non se ne sia saputo nulla, per così tanto tempo?

Grazie a un impressionante lavoro in fase di selezione del materiale d’archivio e poi di montaggio, “Summer Of Soul” trasforma i nastri registrati con sole cinque videocamere in un trionfo artistico che riporta in vita l’edizione del 1969 dell’Harlem Cultural Festival, manifestazione organizzata dal cantante di night-club Tony Lawrence con la collaborazione del sindaco repubblicano John Lindsay, che per sei domeniche di quell’estate portò al Mount Morris Park di Harlem oltre 300.000 spettatori. In quelle giornate, ognuna dedicata a un genere musicale differente, uno sterminato pubblico all-black vide alternarsi sul palco artisti del calibro di Nina Simone e Mahalia Jackson, Mavis Staples e Sly Stone, B.B. King e Gladys Knight, Max Roach e Hugh Masekela. Ma quell’evento fu completamente ignorato dai media: alla fine di un decennio di tensioni sociali - “una convergenza di giovani e adulti dell’età dei loro genitori che desideravano condividere reti ed esperienze” (Charles E. Cobb Jr., da “Four Hundred Souls”) - e nell’anno dell’allunaggio e di Woodstock, una celebrazione tanto dirompente della pervasività e della vitalità ineludibile della cultura nera non era qualcosa di cui il whitey on the moon volesse prendere coscienza. Nemmeno definirsi “Black Woodstock” servì all’Harlem Cultural Festival per ottenere un riconoscimento di esistenza: quella rivoluzione non fu mai trasmessa.

Non c’è da sorprendersi che tutto questo sia accaduto a Harlem, centro nevralgico della black culture sin dalla Renaissance degli anni Venti del ‘900 - quando poeti, musicisti, attori, artisti e intellettuali contribuirono a una prima definizione di identità culturale afro-americana - e teatro di riot a sfondo razziale già nel 1935, nel 1943 e nel 1964. E l’Harlem Cultural Festival assume tanto più valore se lo si colloca nel periodo immediatamente successivo agli assassinii di Malcolm X (1965) e Martin Luther King (1968), agli scontri della long hot summer del 1967 e alle conquiste del movimento per i diritti civili (il Voting Rights Act, sempre del 1965), con relativo backlash: “Ciò che i bianchi americani non hanno mai capito davvero”, si legge nel rapporto Kerner commissionato da Lyndon Johnson e pubblicato nel 1968, “è quanto la società bianca sia profondamente implicata in ciò che accade nel ghetto: le istituzioni bianche l’hanno creato e conservato, e la società bianca lo perdona. La nostra nazione si sta muovendo verso due società, una bianca e una nera, separate e diseguali”.

Tutto questo zeitgeist si percepisce distintamente in “Summer Of Soul” e nelle performance infuocate dei musicisti coinvolti, ed è esattamente questo a renderlo magistrale, forse addirittura miliare. La colonna sonora che lo accompagna raccoglie diciassette brani per ottanta minuti di musica altrettanto necessaria e liberatoria, al netto di qualche taglio doloroso (oltre al già citato Wonder, manca almeno una “I Want To Take You Higher” da antologia), di qualche minima inadeguatezza tecnica attribuibile alla povertà dei mezzi dell’epoca e di un lievissimo senso d’incompletezza dovuto alla mancanza di immagini così potenti.

Come il film, la soundtrack svolge con ammirevole limpidezza filologica una matassa di straordinaria black music, seguendo un filo rosso che da un passato fatto di redenzione gospel, blues e soul conduce a un futuro di insurrezioni e speranze jazz e funk: è allora perfettamente congruo che ad aprire le danze, a mo’ di titoli di testa, siano “Uptown” dei Chambers Brothers - call-and-response iper-eccitato che porta dritti nel cuore di Harlem - e la sfavillante Lucille di B.B King, in una “Why I Sing The Blues” dal gran tiro ritmico - “blues is the teacher, funk is the preacher”, per parafrasare James Ulmer.

A seguire, come un uragano, irrompono sul palco i 5th Dimension di Marilyn McCoo e del marito Billy Davis Jr., per un’esecuzione del medley “Aquarius”/“Let The Sunshine In” che quell’anno sta facendo sfracelli: sei settimane in cima alle classifiche per due pezzi tratti dal musical “Hair”, che il pubblico accoglie con un boato. Un soul psichedelico corale, quel singolo, che tracima entusiasmo ed emozione nella performance vocale dell’intero gruppo, per la prima volta chiamato a esibirsi davanti alla propria gente: tutto, nell’esibizione, è fuori misura, come se l’impianto non potesse contenere tutta quella carica, una sorta di rivincita per un gruppo accusato alternativamente di non suonare abbastanza bianco o abbastanza nero - un tipo di critica cui Questlove si può tranquillamente relazionare: “Avevamo aperto per i White Stripes e subito dopo avevamo passato un mese e mezzo in tour con Lauryn Hill. È sempre code-switching. È una cosa estenuante, non poter essere te stesso”.

Ancora passato, ancora tradizione. David Ruffin ripropone nell’entusiasmo generale una hit firmata coi Temptations nel 1964, “My Girl”. All’epoca dell’Harlem Cultural Festival, però, Ruffin è già un ex: per via del carattere bizzoso, la sua band lo ha cacciato per lanciarsi nei marosi di un sound più duro e graffiante, in linea con la situazione socio-politica a cavallo dei due decenni e con il nuovo vocalist Dennis Edwards (“Cloud Nine”, epocale, esce a ottobre 1968). Lo sregolato Ruffin, invece, arranca dietro a un treno che non passerà più: eppure l’aspra sensualità di una voce invidiata perfino da Marvin Gaye lascia interdetti per trasporto e calore. E poi altri classici: “Oh Happy Day”, nell’arrangiamento irresistibile di Edward Hawkins, che fornirà parecchi spunti a certi irregolari dell’alternative bianco (penso a Nick Cave, penso a Jason Pierce); “It’s Been A Change” degli Staple Singers, dalle parti di un passaggio alla Stax che frutterà parecchio successo commerciale e dell’avvio della carriera solista di Mavis (bello fantasticare su cosa avrebbero fatto della linea di chitarra ossessiva di “Pops” Staples due come Martin Rev e Alan Vega); “I Heard It Through The Grapevine”, nella bollente coreografia vocale di Gladys Knight & The Pips, prima versione del brano di Norman Whitfield e Barrett Strong a essere pubblicata come singolo e più grande successo Motown fino ad allora, prima di essere superata dall’interpretazione suadente e notturna dello stesso standard da parte di Gaye.

A metà scaletta, la Storia spezza il sogno, riporta al vero. Jesse Jackson, sul palco, ricorda Martin Luther King a un anno dall’uccisione, introducendo Mahalia Jackson e chiedendole di eseguire il brano più amato dal Reverendo, “Precious Lord, Take My Hand” - Nina Simone l’aveva fatta propria alla Westbury Music Fair, tre giorni dopo la morte di King; Aretha Franklin la eseguirà ai funerali della stessa Jackson, nel 1972. La performance di Mahalia è devastante, qualcosa cui i nove minuti di questa versione audio rendono solo parzialmente giustizia: osservare i suoi lineamenti distorcersi in un urlo rauco che valica i confini del corpo mortale è un’esperienza realmente trasformativa. A un certo punto, Mavis Staples la affianca in un terrificante botta-e-risposta, e quell’istante suona come un passaggio di consegne a una nuova generazione di interpreti e a un nuovo tipo di attivismo.

Dopo una simile tempesta, è naturale che la tensione cali nell’intervallo latino di Mongo Santamaria (con la sua “Watermelon Man”, uno dei primi successi boogaloo) e Ray Barretto (manifesto di melting pot: “The blood of mankind flows in me/ And so in every face, in every face I see/ I see a part of you and you and you and me”); il flautista Herbie Mann regala invece una rilettura pre-Blaxploitation di “Hold On, I’m Comin’”, impreziosita dalle pazze dissonanze chitarristiche del virtuoso Sonny Sharrock - da recuperare almeno i suoi “Guitar” (Enemy, 1986) e “Ask The Ages” (Axiom, 1991).

E così, appropriatamente, l’ultimo quarto della tracklist è quello della festa, della lotta, delle fughe in avanti. Nel 1969, Sly Stone è all’apice della fama e dell’ispirazione: “Stand!” (Epic) è diventato un million seller grazie a singoli come la title track e, soprattutto, “Everyday People”/“Sing A Simple Song”; ancora non si scorgono, da qui, tutti i problemi personali e relazionali che a breve affliggeranno il leader e il gruppo - nel futuro ci sarà spazio per il fosco masterpiece “There’s A Riot Goin’ On” (Epic, 1971), l’ottimo “Fresh” (Epic, 1973) e poco altro. Sul palco di Harlem, la band è un prodigio multigenere, multietnico e multicolore, un’onda d’urto che mette a dura prova l’amplificazione: è in momenti come questo che “Summer Of Soul” dà l’idea di una rivoluzione prossima ventura - fatto emblematico: la NYPD si rifiutò di occuparsi della sicurezza del live dell’imprevedibile Stone, lasciandola nelle mani del Black Panther Party. Ancora più su, sempre più rumoroso, “Summer Of Soul” offre anche un grandioso spaccato di jazz militante nella linea vocale guerrigliera con cui Abbey Lincoln plana su “Africa” di John Coltrane, riletta con veemenza dalla band di Max Roach, pioniere dell’avanguardia black politicizzata sin dai tempi di “We Insist!” (Candid, 1960).

Chiude Nina Simone, e non potrebbe essere altrimenti. Scrive Alan Light nella biografia “What Happened, Miss Simone?” (Il Saggiatore, 2016): “Quando salì sul palco di Mount Morris Park – in un lungo abito giallo stampato con motivi neri, i capelli raccolti in una voluminosa acconciatura afro, enormi orecchini d’argento che le pendevano lungo il collo – rese esplicite le tensioni e le potenzialità di un evento che celebrava la cultura e l’orgoglio dei neri in seguito alle rivolte scoppiate nelle aree urbane durante le estati precedenti”. E in effetti, nei tre minuti di “Backlash Blues” - uno degli originali del capolavoro “Nina Simone Sings The Blues” (Rca, 1967) - c’è già tutto: la tecnica al servizio dell’espressione, nel pianismo nervoso e nel pieno controllo delle sfumature dell’interpretazione; la rabbia, nel sopracciglio inarcato per la concentrazione e nelle liriche scelte per il brano, una delle ultime poesie di Langston Hughes. Costruiti sulla “Poor Man’s Blues” di Bessie Smith, i versi di Hughes azzannano alla gola il razzismo bianco di ritorno, promettendo vendetta.

“Are you ready?”, chiede l’ultimo pezzo in programma, e a quel punto sembra davvero che una rivolta possa avere inizio: le parole stavolta sono di David Nelson dei Last Poets e gli incitamenti di Simone si fanno sempre più minacciosi ed espliciti - “smash white things”, “kill if necessary” - mentre dietro di lei infuriano le sole percussioni: quelle parole non avranno seguito, fuori dal Mount Morris Park, ma resteranno il simbolo del sacro fuoco di un’artista mercuriale, imprendibile - “Non avevamo figure di riferimento. Lorraine Hansberry era morta, Langston Hughes era morto, Eldridge Cleaver era in prigione. Paul Robeson ci aveva lasciati da molto tempo ormai, Stokely Carmichael se n’era andato, Malcolm X era morto, e Martin Luther King era morto. Non ci era rimasto più nessuno”. (ibid.)

La soundtrack di “Summer Of Soul” finisce così, con un picco d’indignazione e frustrazione, ma sarebbe errato ridurre questo viaggio vertiginoso nella black music e il film da cui origina a un affresco, per quanto portentoso, del trauma afro-americano. Nel montaggio delle immagini così come nella compilazione della scaletta, Questlove riesce nell’intento miracoloso di equilibrare gli estremi: da un lato, il dolore scaturito da un’esperienza di oppressione lunga centinaia di anni, che si parli di schiavismo o di un semplice festival capace di mobilitare folle immense - “Summer Of Soul” andrebbe mostrato a chiunque blateri di cancelling senza capire cosa implichi realmente la rimozione di un’intera cultura; dall’altro, la gioia del ballo e del canto, della connessione e della condivisione, del rinnovamento di una tradizione viva e vitale, nonostante tutto. Ma anche questo lo aveva già detto Nina Simone, meglio di chiunque altro: “When you feelin' really low/ Yeah, there's a great truth that you should know/ When you're young, gifted and black/ Your soul's intact”.

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