Young Neil & Crazy Horse - Barn (2021)
di Stefano Solventi
A pensarci bene, Neil Young è anche un luogo. Intendo dire, alcuni suoi dischi – i migliori? – sembrano avere tra gli obiettivi quello di definire un perimetro, la dimensione e l’atmosfera in cui certi timbri, certe cadenze, la densità degli spazi e delle vibrazioni, possano accadere. Come a sottolineare la natura stessa del suo fare musica: sostanzialmente una situazione, una quadratura di spazio e tempo, un momento insomma, l’unico che renda possibile il gesto semplice e inesplicabile del suonare. Questo spiega forse la sua prolificità, tutti quei dischi snocciolati anche a dispetto dell’ispirazione, persino tutti quei recuperi di esibizioni spesso – diciamolo – ripetitive ma collocabili in un punto esatto sulla linea del tempo, testimoni di un frangente irripetibile.
Se il tema del tempo (e quindi della memoria) nel canzoniere sconfinato di Young meriterebbe un vero e proprio studio, possiamo affermare che – come è naturale – con l’avanzare dell’età sia diventato un elemento sempre più centrale, anche se al canadese va dato merito di non essersi mai crogiolato sul mito confortevole e amarognolo dell’età dell’oro, mantenendo sempre la barra puntata in avanti, e pazienza se a volte somiglia al carrozzone di un robivecchi che arranca lungo una strada infestata di Tesla.
Nel caso specifico, con l’album di inediti numero quarantuno (!), Young e il fido cavallo pazzo – nella stessa formazione già all’opera in Colorado, ovvero Talbot, Molina e Lofgren – hanno trovato rifugio in un granaio adibito a studio, si sono cioè consegnati a un luogo, cercando un equilibrio tra isolamento e connessione per dare forma e sostanza alla solita vecchia magia del suonare. Barn, il fienile, è un po’ la loro Big Pink, o se volete una versione aggiornata della celebre ed enigmatica Mansion On The Hill, sembra cioè rispondere all’esigenza (solo apparentemente paradossale) di scollegarsi dall’affollamento precipitoso del presente in modo da potersi avvicinare al cuore di ciò che davvero accade.
Sarà pure l’ennesimo sogno di un hippie, in effetti ne ha tutta l’aria, ed è pure se vogliamo un sogno un po’ lussuoso, però alla luce dei risultati si rivela assai concreto. Ovvero: funziona. Queste dieci nuove tracce ripropongono la ditta Neil Young & Crazy Horse in ottima forma, intensa e rugginosa, colta nella flagranza da “live in studio” meglio di quanto non facesse il pure discreto predecessore. Le ballate acustiche e i momenti più elettrici sono perfettamente complementari, facce della stessa moneta lanciata in aria per dieci volte, tante le tracce di un disco compatto e piuttosto ispirato, coerente a un’idea che tiene i quattro uniti e sempre sulla corda.
Si parte con una Song Of The Seasons che elegge l’armonica a luce guida per attraversare delicatezze indolenzite altezza Comes A Time e un’arrendevolezza crepuscolare tipo Harvest Moon, intanto che si consuma una disarmante identità tra sentimento e consapevolezza ecologica, tra intimo e collettivo (“We’re so together in the way that we feel/That we could end up anywhere”). Si prosegue con lo sferragliare impettito di Heading West – echi di baldanza sgangherata Ragged Glory e lirismo 90s altezza Broken Arrow – dove un ricordo fondativo riemerge per impollinare di senso tutto ciò che nel frattempo è stato. In questo uno-due di partenza ci sono già tutti gli elementi di base del lavoro, che il resto della scaletta sviluppa con disinvoltura e intensità.
C’è il Neil fiero che tira dritto fregandosene della retorica se c’è da celebrare l’acquisizione della cittadinanza americana in Canerican (melodicamente grezza, ma le chitarre impastano schegge a dovere) o sbandierare la militanza ecologista senza tanti giri di parole nella magmatica Human Race (“Who’s gonna save/The human race?/Where are the children gonna run and hide?”). E c’è il Neil dei siparietti pastello, capace di pennellare un country blues da coyote innamorato (Shape of You) o di meditare con piglio agrodolce e in punta d’inquietudine sul rapporto tra amore e implacabile rotolare degli anni (Tumblin’ Thru the Years).
Ad elevare il livello della proposta pensano due canzoni: la legnosa They Might Be Lost, col piano che sciorina solennità e l’armonica ad aggirarsi spaurita mentre un’attesa condita di preoccupazione scava nella memoria, facendo riaffiorare strane angosce sepolte (sembra uno di quei racconti sospesi e sul punto di esplodere à la Breece D’J Pancake); l’altro è Welcome Back, un folk blues a cuore nero in bilico tra Tonight’s The Night e Zuma, il cui incedere laconico non dovrebbe spiacere a sua oscurità Nick Cave (“Shade is shade/And it sucks you in/No matter what you’re thinkin’”).
In tutto ciò, episodi come Change Ain’t Never Gonna (rag-blues dall’aria stropicciata e alcolica, l’armonica che guaisce un’amarezza beffarda) e soprattutto la conclusiva Don’t Forget Love (zuccherino finale imbottito di buoni sentimenti – ancora – tardo hippie), hanno un po’ l’aria di esercizi defatiganti, qualcosa in più di semplici riempitivi – perché in fondo nell’economia di un album del genere ci possono stare – ma insomma ci siamo capiti.
In definitiva, Barn è un buon disco, non automatico, non “di mestiere”. Ha un suo senso, si inserisce bene in un percorso che da tempo ha imboccato la fase discendente ma senza alcuna intenzione di indicare la data di scadenza (una bella lezione di vita, no?). È più o meno il massimo che potevamo attenderci dal vecchio Loner, ancora capace di procurarci qualche brivido. Di quelli inconfondibili.
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