Storia della musica #5

 La british Invasion 

Quando si parla di british invasion si intende un fenomeno musicale (e commerciale) che vede tra il 1964 e il 1966 i gruppi inglesi dominare le classifiche U.S.A. fino ad allora territorio esclusivo di artisti americani.

Le cronache musicali parlano in realtà di due ondate: la prima vede lo sbarco nelle classifiche americane di un’orda sterminata di gruppi che arrivano sull’onda del successo commerciale dei Beatles, esploso dopo l’apparizione alla celebre apparizione all’Ed Sullivan Show nel Febbraio del 1964; immediatamente le classifiche americane vengono monopolizzate da dischi e singoli dei Fab Four, lanciando nel nuovo continenti altri gruppi-cardine nel rock Inglese come Rolling Stones, Kinks e Animals ma anche comparse marginali ma comunque memorabili come g Hollies, Searchers, Troggs.

Nascono di lì a poco anche gruppi come Herman’s Hermits (in Inghilterra) e Monkees (in America), studiati a tavolino per prendere il posto dei vecchi teen idols alla Paul Anka nell’era del beat.

La seconda ondata segna la comparsa di gruppi che risentono delle innovazioni musicali di fine anni ’60, ognuno a modo suo, differenziandosi per questo ancor più tra loro di quanto non abbiano fatti i, pur diversissimi, predecessori, tanto che se nel caso del primo flusso si può andare a ricercare una certa unità di suoni dovuta a rielaborazioni in chiave pop, blues o vaudeville dei suoni provenienti dal Nuovo Continente oltreoceano, per questi gruppi l’unico elemento condiviso è la comune provenienza albionica: Who, Cream, Procol Harum, Yardbirds e Zombies ne sono i principali protagonisti. Ma per capire come sia possibile che la piccola Albione riesca, così di punto in bianco, ad espugnare la roccaforte delle classifiche U.S.A. , è necessario fare un passo indietro …   Prima di tutto bisogna considerare come gli stessi principi contro cui aveva reagito la rivoluzionaria stagione del rock’n’roll in America, sono gli stessi che stanno dietro al successivo movimento di restaurazione e del rimpiazzo dei suoi protagonisti con controfigure dolciastre e rassicuranti come i teen idols: il forte spirito religioso, il senso delle tradizioni ed il malcelato razzismo dell’America segregazionista.

Fattori che operano in modo ben più blando nel Regno Unito, non a caso meta tra la fine dei ’50 e i primi ’60 di bluesman stagionati che vi trovano un clima adorante ed una folta schiera di adepti interessati al blues essenzialmente sotto il profilo musicale, non avendo ovviamente nessun legame con la tradizione musicale americana , bianca o afroamericana: questo concetto è fondamentale per capire la maggior libertà espressiva e creativa con cui i gruppi inglesi si avvicinano, innovandola, alla musica americana.

Fondamentale per capire lo sviluppo del rock inglese degli anni ’60 si rivela la Blues Incorporated di Alexis Corner, gruppo blues dalla line up mutante. Fulminato sulla via di Damasco del blues dall’ascolto di un disco di Jimmy Yancey negli anni dell’adolescenza, Corner è attivo fin dai primi anni ’50 e alla sua “scuola” si formano, tra gli altri, i futuri StonesJagger, Jones e Richard, Burdon degli Animals, Bruce e Baker dei Cream e John McLaughlin, alfieri di quella che sarà l’ala più legata al blues dell’invasione Britannica.

Da Londra provengono coloro che vengono giustamente considerati i padri del rhythm’n bluesinglese: Rolling Stones, Animals e Yardbirds. Rivoluzionari i primi, capaci di spingere a nuove vette il livello di provocazione e oltraggio già associati al r’n’r nella sua fase d’oro, autoincoronatisi a ragione la più grande rock&roll band del mondo, in grado di eclissare i rivali non solo per la straordinaria capacità di scrivere anthem di presa immediata come “Satisfaction”, ma anche per la poliedricità dimostrata da “Aftermath” (1966) in poi, capacità di cambiare con nonchalance registro passando dal mantra incalzante di “Paint it Black” alle atmosfere sofisticate e barocche di “Lady Jane”, passando per il pop quasi Beatlesiano di “Ruby Tuesday”, continuando a vantare tale titolo a lungo, specie dopo il ritorno alle origini blues di “Beggars Banquet” (1968) e “Sticky Fingers” (1971).

Adombrati dal colosso musicale Stones quasi rischiano di passare inosservati gli Animals ( che per inciso traggono il proprio nome dalla selvaggia condotta del leader Eric Burdon sul palco), gruppo fondamentale nella sua capacità di scrivere pezzi blues in grado di diventare inni generazionali, tra una cover commovente ma al vetriolo della tradizionale “The House of The Rising Sun”, cui vanno affiancati capolavori autografi come “We Gotta Get Out of This Place” e “It’s My Life”.

Ultimo gruppo della triade rhythm and blues Londinese, gli Yardbirds sono ricordati più che altri più che altro per il fatto di avere ospitato tra le proprie fila tre dei più importanti chitarristi di questi anni: Eric Clapton, Jeff Beck, e Jimmy Page; in realtà essi saranno tra i primi bianchi a dare dignità nell’ambito del pezzo rock all’assolo di chitarra oltre a proseguire, sulle orme di Link Wray e dei gruppi strumentali surf, nell’uso del feedback e del fuzz.

Assimilabili sotto il profilo musicale a questi gruppi sono i Them, gruppo che rimarrà principalmente famoso per una b-side, “Gloria”, pezzo a cavallo tra rhythm and blues e garage rock e soprattutto per aver lanciato la carriera di Van Morrison, fenomenale interprete rhythm’n’blues e jazz che emergerà nel giro di qualche anno con capolavori come “Astral Weeks” (1968) e “Moondance”(1970)

Nell’ambito della british invasion però accanto alla folta schiera di band legate al rhythm’n’blues esiste un calderone altrettanto ricco di gruppi che associano ai suoni importati del rock la tipica sensibilità melodica e la naturale inclinazione per il pop Inglese, suscitando per primi l’entusiasmo delle masse americane.

Scontato a questo punto il nome dei Beatles, testa di ponte dell’intero fenomeno nel momento in cui, con il singolo “I Want to Old Your Hand”, volano in cima alle classifiche U.S.A. ( aprile 1964) contagiando anche il Nuovo Mondo con quel fenomeno che in Inghilterra era cominciato già nel 1963 e che va sotto il nome di Beatlesmania.

Nella Liverpool dei Fab Four fino a qualche anno prima era lo skiffle di Lonnie Donegan a dominare la scena musicale, sorta di versione inglese delle jug bands americane; nei primi anni ’60 lo skiffle va però a fondersi con i suoni del rock’n’roll: il risultato di quella fusione è il Merseybeat, il genere con cui i Beatles sfondano accanto ad altri gruppi più o meno noti come Hollies, Gerry & The Peacemakers e Searchers.

Presto però cominciano, fin da “Help!”(1965), a staccarsi da quei suoni dimostrando, aldilà della straordinaria vena melodica frutto di un perfetto bilanciamento tra due talenti come Lennon e McCartney (più acida e sghemba la vena compositiva dell’uno, più classico e rotondo il suono del secondo), un’incredibile capacità di assimilare gli innumerevoli stimoli offerti dalla scena musicale della seconda metà degli anni ’60 (dal folk-rock, alla psichedelica, alle prime sperimentazioni sonore con lo studio, al pop barocco) e di rielaborarle mantenendo l’inconfondibile marchio di fabbrica trasformandoli in gioielli pop, sia che si tratti della psichedelica raffinata di “Sgt Pepper”(1967) sia che si tratti di un tour de force incredibile e meraviglioso tra i generi come “The Beatles”(1968) (meglio noto come “White Album”).

Una vena melodica altrettanto spiccata, ma più stralunata, influenzata dalla tradizione del music hall e alternata a poderosi stacchi adrenalinici, anima invece i dischi dei Kinks. Fini osservatori della vita della middle-class inglese prima, della nazione Britannica poi, oltre alla creazione di affreschi straordinari come “Sunny afternoon” e “Waterloo Sunset” i Kinks possono vantare anche l’invenzione del concept album, con “The Village Green Preservation Society”(1968) e la scrittura di un pezzo come “You really got me” che anticipa di qualche anno,con il suo riff indemoniato di chitarra, il suono sferragliante del garage-rock.

Spetterebbe invece agli Who, secondo molti, il titolo di inventori dell’heavy metal, per “ i colossali riff di chitarra, il martellare della batteria e lo stile quasi operistico del cantato”. Associati alla seconda ondata dell’invasione, protagonisti musicali (assieme agli Small Faces) del movimento Mod: abiti e vespe italiane, culto del rhythm’n’blues, in contrapposizione alle gang dei rockers; naturalmente partono suonando un rhythm’n’blues, anfetaminico e abrasivo, facendo poi evolvere il proprio suono aldilà degli steccati del genere fino a divenire uno dei fenomeni musicali più importanti del decennio; l’ evoluzione li porterà nel 1969 a creare la rock opera con “Tommy” e più tardi, nel 1973, con “Quadrophenia”. Se gli inni generazionali non mancano nel repertorio di altri gruppi inglesi dell’epoca come Animals e Rolling Stones qui l’identificazione tra il gruppo e l’ascoltatore è totale.

Who, Beatles, Kinks, Animals: per molti versi risulta evidente da un semplice accostamento tra questi gruppi quanto l’intero concetto di British Invasion, letto solo il profilo musicale sia per molti versi aleatorio, tante e tali sono le differenze tra di essi.

La schizofrenia musicale del non-movimento è rispecchiata perfettamente da quella di un gruppo come i Kinks: tra i picchi adrenalinici di “All day and All night” e l’elegia crepuscolare di “Waterloo Sunset” prendono posto tutte le diverse strade intraprese dai gruppi inglesi. Esistono però alcuni elementi comuni, accanto all’ovvio fenomeno commerciale che da il nome alla scena, che si riveleranno di fondamentale importanza per il futuro del rock.

Uno è l’introduzione del concetto stesso di gruppo, che va a sostituire la figura del cantante rock solitario degli anni ‘50: un cambiamento epocale, che per molti versi potrebbe riflettere il fenomeno delle gang urbane Inglesi, in parte si può ricollegare al fatto che gran parte dei gruppi Inglesi parte dal rhythm’n’blues (anche se talvolta in forme spurie come il merseybeat), genere che era naturalmente legato ad una line up di più elementi (mentre il bluesman ed il cantante country erano figure notoriamente solitarie).

L’altro elemento, chiave di lettura fondamentale per capire i motivi del successo travolgente della musica inglese presso il pubblico d’oltreoceano, è la vena melodica innata tra i gruppi Albionici: quella tendenza, tipicamente Inglese, di aumentare la gradazione melodica o comunque il tiro anthemico, qualsiasi sia il genere toccato, sia nel pop sia nel rock: una di lezione di cui gli americani faranno tesoro fin da subito, come l’esplosione del folk-rock ed il fiorire della scena garage-rock dal 1965 in poi, stanno a testimoniare.

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