Storia della musica #4

Il movimento folk del Greenwich Village 

Le origini del movimento folk del Greenwich Village, voce musicale della controcultura che si va a sviluppare a cavallo tra anni ’50 e ’60, devono essere ricercate negli ultimi anni ’40, anni in cui si cominciano ad intravedere le prime avvisaglie di quel revival folk che porta migliaia di giovani americani ad emigrare a New York, nel Greenwich Village, appunto, zona di loft a basso prezzo e di club animati da serate jazz e folk.

In particolare, nel 1948, vanno segnalati due eventi importantissimi per il movimento e la musica folk più in generale: da una parte l’introduzione di classifiche Folk all’interno dell’onnipresente Billboard; dall’altra la nascita dei Weavers di Pete Seeger.

Già negli Almanac Singers Seeger è tra i primi ad associare alla musica folk l’elemento sociale e il valore di musica di protesta. Il primato in tal senso va, però, attribuito a Woody Guthrie, primo grande cantautore della storia che fa partire un sottile filo rosso che da Guthrie ci porta a Seeger, da Seeger al movimento del Village e da qui alle prime opere di Dylan, prima fra tutti “Blowin’ in the Wind”.

A differenziare il folk revival dei primi anni ’60 dal folk tradizionale di Guthrie e Seeger è un seppur leggero ammorbidimento in senso pop della struttura e dell’arrangiamento della canzone. Ammorbidimento relativo, sia ben chiaro: anche in questo caso al centro del pezzo rimane la storia, mai a fine a sé stessa, ma sempre con fini didascalici e come veicolo per il messaggio, (normalmente antagonista), che il pezzo deve veicolare.

Il pezzo che lancia il revival è la tradizionale “Tom Dooley” eseguita dal Kingston Trio, probabilmente il più popolare gruppo folk della storia, importante non solo sotto il profilo artistico, ma anche per l’effetto di sfondamento nell’industria discografica che è in grado di esercitare, rendendo possibile la messa sotto contratto di artisti come Bob Gibson e lo stesso Dylan prima, e poi di tutti coloro che saranno il cuore del movimento del Greenwich: in particolare Joan Baez, Barry McGuire, Buffy Saint-Marie, Judy Collins e Phil Ochs.

Se alcuni tra loro, come la Baez e Ochs rimangono tendenzialmente legati agli standard tradizionali del genere, accompagnamento di chitarra acustica e melodie scarne e semplici, altri cominciano presto a spingere il genere aldilà dei suoi limiti tradizionali, primo fra tutti Dylan che nel 1965 provoca l’indignazione del pubblico del Newport Folk Festival presentandosi accompagnato dalla Paul Butterfield Blues Band; l’evento segna simbolicamente la celebre svolta elettrica, che già si intuiva dall’ascolto di “Bringing It All Back Home”, dello stesso anno e che verrà formalizzata definitivamente con “Higway 61 revisited” (1965). È solo la prima di una serie di svolte che lo condurranno a (ri)scoprire tra gli altri country ( con “John Wesley Harding” del 1967) e poi gospel (con “Destre” del 1976). Dylan non è l’unico innovatore di quegli anni, tuttavia i cambiamenti e le innovazioni che egli introduce nel folk per tutti gli anni ’60 hanno un effetto catalizzatore che porta la scena musicale ad imitarne quasi pedissequamente gli spostamenti, tanto che alla svolta elettrica e quella country, si accompagnano, più o meno direttamente, la nascita del folk-rock e del country-rock.

Un altro grande innovatore all’interno del Greenwich Village fu Fred Neil, sorta di punto d’incontro ideale tra Tim Buckley e Tim Hardin (due artisti che vedremo tra poco), col suo folk venato di blues ed un’unicità stilistica che gli impedirà di avere dei veri e propri eredi (anche se non mancheranno cantautori che ne riprenderanno in parte la lezione musicale, primo fra tutti Badly Drawn Boy): la sua notorietà rimarrà in gran parte legata alla sua “Everybody's Talkin”.

Sempre al Village operano Simon & Garfunkel esordendo nel 1964 con l’album “Wednesday Morning 3 A.M”: nonostante l’accostamento con la scena folk sia facilitato da tempo e luogo, qui il genere rivive in una sfera più intima, lontano dalle tematiche sociali del folk dell’epoca, cui si associa nella scrittura un’insopprimibile ed irresistibile vena pop.

Per il resto, gli altri grandi innovatori della scena folk sono spostati rispetto all’epicentro della scena, chi più chi meno. Così sulla costa Est troviamo le sperimentazioni di Sandy Bull, che anticipò di anni artisti poliedrici come Ry Cooder e Richard Thompson nella sua camaleontica abilità di passare da un genere all’altro fondendo il folk col jazz, il raga indiano e musiche di ispirazione mediorientale; gli fa eco la mirabile fusione di folk, jazz e bluesattuata da Tim Hardin nei primi tre dischi, in particolare “ Tim Hardin 2” (1967).

Sulla costa Ovest il movimento folk si sviluppa più tardi, in piena era psichedelica: una sorta di controparte Californiana (e lisergica) di Dylan è Country Joe Mc Donald, che si fa largo con la sua vena di songwriter politico nella scena freak di San Francisco, creando una forma di folk lisergico. Di venature psichedeliche è illuminato anche il folk di Tim Buckley, arricchito però da mille altri spunti sonori: il folk di Buckley parte dalle divagazioni lisergiche e dalle suggestioni medievali di “Goodbye and Hello” (1967) per andare ben presto ad abbracciare il jazz in opere sempre più rarefatte e dilatate che trovano il proprio apice in “Starsailor” (1970).

Altrettanto ardite le sperimentazioni compiute, sempre nell’ambito della costa Ovest, da John Fahey che associa le tecniche tradizionali di finger-picking, tipiche del country e del blues, ad un folk contaminato con raga indiani, musica classica e dissonanze, sperimentazioni strumentali che verranno riprese decenni più tardi da capofila del post-rock come Rodan e Slint.

Anche nella terra d’Albione non mancano entusiasti esponenti della scena folk: dai più tradizionalisti, come lo scozzese Donovan, nei cui dischi la tradizione folk rivive attraverso la fisiologica fascinazione scozzese per il pop, autore di un suono che, nonostante alcune suggestioni Dylaniane qua e là più evidenti, vive in una dimensione bucolica e soffice, rivelandosi influenza imprescindibile per gran parte del folk-pop degli anni ’90. Conterraneo di Donovan ma musicalmente agli antipodi era Davy Graham, autore di un folk strumentale e meticcio, contaminato di blues e jazz fin dal debutto “ The Guitar Player... Plus” (1963).

Se le sperimentazioni di gente come Graham, Fahey e Bull si riveleranno importantissime non solo per il folk ma per la storia del rock tout court, con la loro capacità di contaminarsi e aprire ad altri linguaggi musicali estranei al folklore tradizionale ed artisti come Donovan e Simon&Garfunkel saranno fondamentali per la nascita del folk più intimista e melodico, nell’immaginario collettivo il folk degli anni ’60 si riallaccerà sempre alla figura del cantautore del Greenwich Village, primo pilastro nella creazione di una visione e di uno stile di vita alternativi rispetto a quelli proposti/imposti dai mass media americani.

Una visione antagonista che ha messo le sue radici con la scena beatnik ma che qui trova un’espressione e un’adesione di massa: il pezzo folk dell’epoca nasce e attecchisce subito come inno, cantato durante marche e sit-in a cui prendono parte migliaia di studenti, “divenendo un veicolo per i giovani per esprime la propria frustrazione”. È stato fatto notare come questa natura antagonista presenti molte affinità con lo spirito del primo rock’n roll e di come nel passaggio del testimone sia stato sostituito l’elemento personale con quello sociale: nel folk l’ascolto del pezzo diviene maggiormente consapevole e spesso si accompagna ad un disprezzo del tipico processo di ascolto della musica pop, che ti porta a “canticchiare le melodie suonate dalle radio e osannare le star imposte dalla radio”.

Con le dovute differenze è innegabile che qui si ritrovano i primi segni di quella mentalità che cerca delle alternative ai valori imposti dalla società e dai mass media (musica compresa): una visione che determinerà e accompagnerà, non a caso, gran parte delle svolte più importanti nell’evoluzione della musica rock.

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