World music africana | Il viaggio dei Tourè Kunda da Ziguinchor al successo internazionale

Questo doppio Lp dal vivo è stato il mio biglietto d’ingresso nella world music africana. Era il 1984, e derive di Africa erano già arrivate nel rock: qualche anno prima Eno e David Byrne/Talking Heads avevano portato la new wave a incontrarsi con i poliritmi africani, e Peter Gabriel, come Picasso nella scultura e Modigliani nella pittura, aveva cercato di introdurre nella sua arte il mistero nero. Ma in realtà, di dischi africani – a parte “Pata Pata” – nei negozi non se ne trovavano, e il web dovevano ancora inventarlo.

L’Africa è grande, gravida di musiche anche molto diverse fra loro, ma mancavano pubblicazioni e mappe per seguire rotte certe. Si andava a occhio, e solo molto dopo avrei messo in prospettiva la incredibile varietà (e quantità) della musica del continente nero.

I Tourè Kunda vengono dal Senegal, insieme a Mali e Nigeria i Paesi dell’Africa occidentale più ricchi di tradizioni musicali e di artisti arrivati sui palcoscenici internazionali. Nascono a Ziguinchor, adagiata sulla sponda meridionale del fiume Casamance, che fra savane e mangrovie taglia il nord dal sud del Senegal e dà il nome alla regione.

Nella loro lingua madre, il soninkè, tourè vuol dire elefante, «il nostro animale feticcio, basta vedere la sua forza» e kunda famiglia. Nella famiglia elefante, però, la musica non è ben vista. È grazie al fratello maggiore, Amidou, se negli altri tre fratelli germoglia il seme.

In un’intervista al settimanale Le Point, Ismaila ricorda: «Era più grande di noi, quasi uno zio. Noi andavamo ancora a scuola, lo vedevamo cantare e suonare la sua chitarra. Eravamo affascinati dalla sua voce acuta che si alzava e si abbassava. Ha resistito a tutta la famiglia Touré che non voleva che facesse musica. Non è stato ben visto. I nostri genitori ci hanno detto che era satanico. Lui si ostinava a suonare, e ci ha trasmesso il virus».

Il resto l’ha fatto Radio Congo, un’emittente che in quegli anni trasmette notiziari in lingua francese e musiche di tutti i tipi: dal Congo al Gabon, dal Senegal al Benin, Nigeria. Se aggiungete il r’n’b/funk, in primis di James Brown, onnipervasivo in tutto il west-Africa, il mbalax del Nord, il reggae (anch’esso ben diffuso sulla Costa) e ça va sans dire le svariate poliritmie in cui ogni paese è scuola, queste sono le radici del gruppo futuro. Oltre alle musiche, il contesto consente loro anche un’altra apertura, quella alle varie etnie della zona intorno a Ziguinchor: Soninkè, Fula, Mandingo, Diola, Creolo portoghese, Peuhl e Wolof. È un luogo dove imparare dialetti, oltre a musica, teatro e danza. E, soprattutto, a convivere armoniosamente con tutte le componenti di questa generosa mescolanza etnica.

La storia dei fratelli Tourè continua in Francia. Ismael è andato a cercare fortuna a Parigi nel ’75, e un paio d’anni dopo convince il fratello, nato soli 22 giorni dopo di lui, a raggiungerlo. I tempi sono duri, Sixu Tidiane non si ambienta, fa freddo, è sempre sul punto di tornare a casa, ma stringono la cinghia, si fanno conoscere con il nickname Le Frères Griot, e cominciano a sentire un crescente interesse dei francesi nei confronti loro e della musica africana, molta della quale arriva dalle sue ex-colonie. Parigi sarà la capitale in Europa della musica africana francofona, così come Londra sarà il polo d’arrivo dalle ex-colonie di lingua inglese.

Se Manu Dibango e Francis Bebey (Camerun) e il gabonese Pierre Akendengue sono la prima ondata, i Tourè sono l‘avanguardia della seconda. Nel ’77 la Africa Fete all’Hippodrome de Pantin gremito li consacra, poi un mese di sold out al Teatro Danois, gente inutilmente fuori in fila. Nel ’79 si riunisce anche il fratello maggiore, e il trio con Amadou diventa kunda, ‘famiglia’, ed è quello che registra i primi due album per la Celluloid, una etichetta francese che intuisce le potenzialità della musica africana (con loro incidono anche i Material di Bill Laswell, che più avanti produrrà un lp dei Tourè).

Poi, una notte terribile, sul palco de La Chapelle des Lombards, uno dei locali parigini dove si suona world music, Amadou si accascia al suolo, e non si riprende più. Proprio adesso che quel sogno di bambini in riva al fiume si era avverato.

Ismaila e Sixu decidono di continuare, e il primo tributo che fanno al fratello mentore è un album di grande e durevole bellezza, “Amadou Tilo”, in copertina un branco di elefanti che si abbeverano al fiume. È mancato il capobranco, ma la famiglia continua, e al suo posto entra il fratello minore Ousmane (un lustro dopo Ousmane uscirà ed entrerà un altro fratello, Hamadou detto Sèta).

Il secondo è una lunga tournèe panafricana che, non potendo suonare in Europa, per la prima volta attraversa tutta l’Africa occidentale: Senegal, Gambia, Costa d’Avorio, Mali, Benin, ospitando sul palco alcuni della new wave africana a cui hanno aperto le porte: Salif Keita, Mory Kantè, Baaba Maal, Angelique Kidjo. È il momento in cui anche Youssou N’Dour, se vogliamo il competitor del nord del Senegal, dove la musica popolare è più legata alla tradizione, il mbalax, decide di incamminarsi verso Parigi e il real world di Peter Gabriel.

“Live – Paris Ziguinchor” è la registrazione (di eccellente qualità) di quel tour, e venderà l’astronomica cifra di 250mila dischi. Raccoglie il meglio dei loro primi tre album, in una versione stracolma di energia, musicisti eccellenti, un suono più gonfio e anche più istintivo, vicino alle radici, rispetto ai dischi.

Si apre con due minuti e mezzo di percussioni, una tipica poliritmìa da villaggio, tutti in circolo, potremmo essere per le strade di Santhiaba, il loro quartiere, potrebbe essere l’inizio del rituale senegalese di passaggio all’età adulta, il Djamba Dong, la danza delle foglie, che poi è come definivano agli inizi il loro stile.

Un “Salam Aleikum” di benvenuto e si va, sembrano una Tesla – da zero a cento in 3” -, sono a velocità di crociera nel giro di un attimo, e non ci si ferma mica più, i primi due “Baounane” e “Martyrs” bruciano via, il secondo con un sound che ricorda – per potenza e fiati – altri apripista, i ghaniani Osibisa.

I due sax di Michel Billiez e Ben Belinga sono al centro del suono in tutto il disco. Qui aspettano che il brano cresca, si fanno appena notare e quando serve la spinta entrano potenti, fra il r’n’b alla King Curtis e toni più jazzati: sempre e comunque pieni, grassi, fanno dondolare o scuotere la testa come in un assolo di elettrica.

“Sidi Yella” è una meraviglia che parte piano, le tastiere che replicano una marimba, è una folk song cantata con passione dai due fratelli, voce dolce e chiara uno, più cartavetrata l’altra, le loro voci così intense. Perché quello che distingue davvero la genìa dei Tourè dalle altre band africane sono le voci, sia le tre individuali che le armonie vocali che intrecciano, con l’aiuto di Seynabou Diop. Cantano come miele o come leoni o come uccelli che planano, ma sempre in modo coinvolgente, aiutati dal dono naturale dei Tourè nel disegnare melodie: sono allo stesso tempo tipiche degli chante africain quanto pop, anche per i nostri gusti.

African pop, forse, melodie orecchiabili, intrecciate però con continue jam percussive e vocali travolgenti. “Casa Di Mansa”, che ha sotto un riff di marimba continuo, sale e scende, le due voci soliste che si alternano, si scambiano e con i cori fanno il classico chiamata-e-risposta, il trademark del cantato africano, direttamente dai rituali e dalle danze nei villaggi. Ma questo avviene in realtà in tutti i brani, il ritmo veloce, quasi funky di “Salya” i cori se li porta via, la band che corre e i cori a molte voci che li rincorrono, superano, e poi voltano altrove.

Ma c’è veramente di tutto, nelle loro corde: “Utamada” ha dei passaggi strumentali che forse potrebbero essere un jazzrock alla senegalese, “Africa Lelly” parte come fossero davvero i Wailers redivivi – dove sei Bob? Con Amadou? – continua come fosse Manu Dibango, il coro di “Africa! Africa!” che sembra non finire più. “Kambe” inizia con un riff di elettrica a metà fra il high life juju e James Brown prima che la voce d’angelo e il suo coro ci riportino a Casamance, poi entra il loro ritmo preferito -un reggae leggero e veloce, che corre e scorre, percussioni e piano elettrico che svisa fra jazz e soul sul quale poggiare avvolgenti cori a tre voci.

Mettiamoci anche un assolo di elettrica cattivella e siamo davvero in un territorio di mezzo fra Africa e il resto del mondo. Tutto questo se ci pensi, se no ti balli via la musica e, come dice Marley, «dimentica tutti i tuoi problemi, e danza».

Cosa alla quale sicuramente contribuisce una grande band, di certo modello per tutte le band miste di razza e di esperienze che sorgeranno sull’asse Africa-Europa, molte per accompagnare negli anni 90 e 2000 le molte e i molti cantanti che saliranno a cercare fortuna o definitiva consacrazione in Francia. Chico Du (basso), Michel Abihssira (batteria), il chitarrista Jean-Claude Bonaventure e il tastierista Roy Elrich sono una gran bella macchina, puntuali e compattissimi come certi passaggi richiedono, ma abbastanza groovy da mollare gli ormeggi e divertirsi sul serio. I primi tre, fra l’altro, quando la band si scioglierà andranno a trovare fortuna per davvero, creando i Kaoma e il fenomeno della Lambada.

La chiusura è lasciata a quello che è stato uno dei grandi hit africani degli anni 80, “E’mma”.
È l’unico testo che ho trovato tradotto (spero bene), purtroppo è impossibile capire di cosa parlino i Tourè, anche se i temi africani sono sempre gli stessi: hanno a che fare con la forza e bellezza della natura, il senso della famiglia e del rispetto, l’onore e la dignità, la povertà e le ingiustizie.

E, come per tutti noi, l’amore. Generalmente molto poetico, quasi sempre verso una persona difficile da sedurre, a volte anche solo da avvicinare.

«Emma è una ragazza, non le importa di nessuno
Molti ragazzi muoiono per lei, a lei non importa
Emma è un albero foglie verdi sui suoi rami, il sole la bacia
Puoi cambiare te stesso in tutte le cose
Rimarrai sempre lo stesso
La tua mente ti aiuta a scappare via di qui
e cercare un’altra strada».

Non esattamente una love song tradizionale, venata da quel senso della fuga, desiderio e sofferenza insieme, che è sempre malinconicamente presente nello spirito di tanti africani, e non solo musicisti. E’ un reggae veloce, quello che abbiamo poi sentito dagli UB40 o Africa Unite, ritmo ipnoticamente in loop come da tradizione afro, musica orecchiabilissima e perfetta chiusura, ispirata e sentita. Si può, al fine, tirare il fiato, dopo 64’.

Musica perfetta sia a manetta che in sottofondo, per anni me la son portata dietro nell’autoradio, e ricordo anche il piacere e l’onore di presentarli una notte a Roma, in uno dei tanti concerti che in quegli anni organizzavano i pionieri dell’africano-in-Italia. Con l’arrivo del digitale e di Amazon puoi sentire e comprarti tutti i dischi di ogni angolo del mondo, quel senso di scoperta suona come un’epoca lontana. Ma scoprire o riscoprire funziona ancora, alla grande, anche su Spotify. I classici, soprattutto se son stati il tuo passepartout, sono per sempre.

Come sembrano esserlo anche i due fratelli, Ismael e Sixu. Hanno continuato a fare album, e tutt’altro che scontati, a partire da quello del 1985, “Natalia”, prodotto da Bill Laswell, un esperimento afro-tecnologico. Da allora, ne hanno pubblicati altri dieci. Hanno suonato per Presidenti, da Mitterand a Mandela, nei grandi teatri e festival, dalla Carnegie Hall a Montreaux.

L’impegno non è mai mancato: nel 2002 hanno registrato una canzone in omaggio alle 1865 vittime del traghetto che collega Dakar con Zinguinchor, lanciando una campagna di solidarietà “una barca per il Senegal”. Nel 2007 con il loro album “Nitè” hanno reso omaggio a Leopold Sedar Senghor, straordinario poeta e primo presidente della Repubblica del Senegal. Nel 1999 hanno contribuito e messo le loro voci su un brano, “Africa Bamba”, del tera-hit di Santana “Supernatural”, hanno aperto il suo tour del ’99 e Carlos ha ricambiato firmando con la sua iconica chitarra una versione salsa di “E’mma” e una traccia nel loro ultimo lavoro del 2018: un disco, “Lambi Golo”, dichiaratamente politico, nel quale tornano molto sui temi dell’ingiustizia, della povertà, del malgoverno e delle guerre sempre più ricorrenti nel mondo e in casa: «Ma poiché l’arte non si ferma all’introspezione deve esplorare, scommettiamo sul futuro».

Impegnandosi politicamente, cercando di tenere alta l’etica, nel lavoro e nella vita: «La passione per la vecchia politica oggi si traduce in corruzione, furto, menzogna». La mentalità dei griot ritorna nel tenerci che i giusti insegnamenti vengano passati da una generazione all’altra: «Abbiamo a cuore l’eredità che stiamo trasmettendo alle generazioni future. Dobbiamo fare di tutto per garantire che la politica sia culturalmente, socialmente ed economicamente sostenibile e per garantire che uomini nuovi e capaci siano lì per tirarci fuori da questo pantano» (tutto il mondo è paese, ne c’est pas?).

I Tourè sono stati, e si sentono ancora, non solo dei grandi artisti, ma piuttosto degli ambasciatori internazionali non solo della musica, ma della cultura africana.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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