Ryam Adams - Big Colors (2021)
di Tony D'Onghia
A due anni di distanza dall’annunciata pubblicazione di tre album nel corso di soli dodici mesi, e dalle controversie che ne hanno fatto posticipare l’effettiva uscita, arriva finalmente sul mercato in formato digitale e CD (mentre l’uscita in versione vinile è rimandata ad agosto) l’atteso Big Colors, che senza contare live, EP ed uscite più o meno ufficiali, si può considerare a tutti gli effetti come il diciottesimo lavoro sulla lunga distanza per lo statunitense Ryan Adams. Traguardo di tutto rispetto per un musicista nell’effimero panorama musicale odierno e segno di prolificità e consistenza artistica. Tutte doti comprovate del Nostro.
La facilità di scrittura del rocker è infatti diventata proverbiale così come la sua versatilità e il bagaglio di registri stilistici. Negli anni i suoi LP hanno spaziato dal ruvido country rock degli esordi con i Whiskeytown al più classico cantautorato acustico del suo esordio solista Heartbreaker, prendendo poi la forma di più elaborati omaggi alla tradizione delle jam-band, nel solco dei Grateful Dead e del rock del sud degli States con il doppio Cold Roses, passando al rock più urgente, elettrico e tagliente – Rock n Roll e 1984 gli esempi migliori – per puntare poi su un sound dai connotati più classici, radiofonicamente e commercialmente intesi. I suoi dischi migliori ad ogni modo sono quelli in cui tutti questi elementi, o anime musicali se così le vogliamo chiamare, si mantengono in giusto equilibrio, come è decisamente in questo caso.
Originariamente destinato ad essere primo della suddetta trilogia, e registrato durante il 2018, Big Colors arriva dopo la pubblicazione di Wednesday – disponibile via streaming e digitale già dalla fine dello scorso anno – che si distingue per un tono austero, introspettivo e confessionale. Del tutto diversa l’ispirazione che anima questo lavoro, che già dal titolo lascia intravvedere ben altre sonorità ed atmosfere. Lo stesso Adams lo descrive come colonna sonora di un film immaginario. Una ipotetica pellicola ambientata tra New York e Los Angeles nella metà del decennio degli 80s, periodo che è anche, e soprattutto, un luogo dell’anima, di un intero immaginario oltre che riferimento stilistico ben preciso. Infatti, basta premere il tasto play per far partire il primo brano, e il venire catapultati idealmente nel 1984 è davvero questione di un attimo. La title track brilla per un cangiante, suggestivo arabesco chitarristico e una melodia onirica e suadente, mentre il testo offre la consolazione di un cauto ottimismo, dopo la muta disperazione espressa nel suo predecessore: «The brightest colors always rising to the top / With no fear and only hope». Se di una sorta di break-up album si tratta, per lo meno non manca di offrire all’ascoltatore sprazzi di lievità. La seguente Do Not Disturb serve a ribadire il concetto, questa volta evocando libertà e visioni della Los Angeles delle palme lungo le strade di Beverly Hills o di tramonti sulla Pacific Coast Highway e successi di Album Oriented Rock provenienti da un autoradio a tutto volume. «My heart’s all packed up and ready to go / Watch that sun, it rises in my soul», viene cantato da Adams con una inedita rilassatezza da crooner su un groove insolito per i suoi standard, ma di sicura presa.
It’s So Quiet, It’s Loud introduce un Ryan Adams in versione quasi Roy Orbison e una melodia d’altri tempi. L’amore di Adams per la musica di Smiths e Morrissey, e soprattutto per lo stile chitarristico di Johnny Marr, sono cosa ben nota e documentata, e con lo scorrere della tracklist si fa sempre più evidente con quanta cura si sia voluto ricreare quel tipo di magia sonora. Il singolo Manchester in particolare, canzone dedicata ad alcuni dei suoi punti di riferimento musicali, serve a ribadire questo debito artistico. E lo svolge alla grande, con l’efficacia di una produzione – firmata da Don Was e Beatriz Artola – curata nei minimi particolari e che, almeno negli intenti, evoca lo spirito, la sofisticazione e il pathos – anche nella vocalità “morrisseyiana” – di classici come Everyday Is Like Sunday o There Is a Light That Never Goes Out («I would throw it all away and choose / If I could have been born three blocks from you / And we burn this city to the ground»). Fuck the Rain – tipica espressione di sfida a cui i fans di Adams sono ben abituati e canzone già resa pubblica nel gennaio del 2019 – arricchita da uno squisito assolo di chitarra eseguito da John Mayer e What Am I completano una ipotetica prima facciata che ne rappresenta una delle più solide e consistenti messe assieme dal musicista in tutta la sua discografia.
La seconda facciata si apre idealmente – o fisicamente, per chi ascolterà questo disco in vinile – con Power, un cambio repentino e strategico di mood ed un sound che richiama alla memoria il rock ad alto contenuto di ottani del’Iguana di Blah-Blah-Blah o Billy Idol. Da qui in poi I surrender e Middle of the Line, alltrettanto muscolari, si alternano a due ulteriori e riuscite ballate, Showtime (forse una delle canzoni più tradizionalmente pop dell intero repertorio di Adams,) e In It For The Pleasure. Il disco si chiude con Summer Rain, una sorta di rivitazione delle atmosfere della hit Boys of Summer galvanizzata da un maestoso riff di chitarre nel quale, secondo le informazioni, mette il proprio zampino l’icona del punk rock statunitense Bob Mould.
In un panorama musicale in cui molti guardano e citano quel decennio in cerca di ispirazione e credibilità, un disco che si rifà agli 80s più vituperati e derisi, li reinterpreta e reinventa senza la minima traccia di ironia e cinismo, ma al contrario come un atto d’amore, non può che andare a toccare le corde giuste, almeno tra una certa fascia anagrafica. Big Colors è un disco di classic rock dall’ampio respiro come non se ne realizzano più molti. Almeno nei sogni di qualcuno, quell’era vive ancora inalterata.
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