La rivincita della tradizione | L’ultimo tango a Parigi e a Buenos Aires dei Gotan Project

Questo è uno degli album che al virare del nuovo millennio mettono meglio in scena il senso della contaminazione e della ricombinazione: più che inventare qualcosa ex-novo, la filosofia è campionare, mischiare influenze e stili e suoni a volte completamente diversi e ritrovarsi in mano qualcosa di inedito.

Quando i Gotan Project arrivano sulla scena, alla fine dei 90, il trend sonoro che è nell’aria, in discoteche cool e piccoli club da chill out, è il downbeat, breakbeat, trip hop, lo suonano ormai mille DJ in giro per le piste del mondo. È un filone della club culture, e ognuno contribuisce: Soul To Soul e Massive Attack sono gli originatori, poi con loro tanti gruppi inglesi francesi e tedeschi, o dj-produttori-solisti che campionano e riciclano, aggiungono beat elettronici e cambiano le dinamiche dei brani, gettano dentro elementi diversi e creano “parentele” impossibili.

I Chemical Brothers (un nome un programma) nella loro dance tecno mischiano i big beat elettronici grandi quanto uno stadio con le melodie di Omar Faruk Tekbilek, musica turca di ispirazione Sufi. Michael Brook, produttore e beatmaster ambient canadese, riprende “Night Song”, capolavoro del cantante pakistano di qawwali devozionale Nusrat Fateh Alì Khan, e con delicatezza lo trasforma. I francesi St. Germain e Llorca i ritmi li spruzzano di jazz, come il barese Nicola Conte.

Ci sono gli inglesi Thievery Corporation e Groove Armada, gli austriaci Tosca, etichette come la Ninja Tune (ah, gli indimenticati Funki Porcini!), le variazioni sull’acid jazz della Talkin’ Loud, la nostra Schema con la serie “Break’n’Bossa”. E anche breakbeat in stile chill out, lounge music tropicaleggiante con ritmiche sintetiche: “Brazilectro” e “Ambient Lounge”, oltre agli esotici “Buddha Bar”, sono altre compilation seriali eccellenti.

Il progetto dei Gotan è però più ambizioso e visionario: oltre a riportare in auge il tango attraverso una veste moderna, oltre a fare una musica che si possa sia ballare che ascoltare, da tenere in sottofondo o facendosi portar via dalla sexiness di beat&melodie congiunte, il senso è anche far incontrare due città-simbolo, Parigi e Buenos Aires, e due culture lontane, anche se in fondo hanno moltissimi legami di sangue.

Da una parte dell’oceano il tango, nato come da migliore tradizione nei peggiori bordelli di Buenos Aires (e più in generale nei locali del grande estuario del Rio de la Plata, uruguagi inclusi), che nel corso del 20° secolo si è svincolato dalla sua fama sudicia e pericolosa, è salito di livello sociale grazie al padre della patria tanghèra Carlos Gardel diventando una sorta di “musica nazionale” argentina. Con lui anche le orchestre, le cosiddette “Orquesta Tipica”, come quelle di Horacio Salgan e Osvaldo Pugliese.

È passato attraverso una prima mutazione (o meglio, scisma), ad opera del grande Astor Piazzolla, che ha aggiornato il formato, rotto gli schemi, definendo il Nuevo Tango, e nonostante le maledizioni dei puristi ha ridato vita alle aspirazione internazionali di una delle musiche più belle e riconoscibili dei nostri tempi. In fondo, al centro del Novecento il tango era ballato e ammirato in saloni da ballo e teatri europei, anche per le strade delle capitali: ballo spettacolare e complesso – fatto di attitudine ed empatia prima ancora che di tecnica – porta con sé passione e rigore, sensualità sfrenata e capacità di contenersi, romanticismo e tradizione, storia e identità. È così da 50, 100, alcuni dicono 150 anni.

Dall’altra parte dell’Atlantico, più a Nord, nei migliori (o forse i peggiori, dipende dai punti di vista…) club europei, anche nei paesi da cui son partiti gli emigranti che fondarono l’Argentina e inventarono, partendo dalla più “nera” milonga, il tango (Italia e Germania innanzitutto), ci sono altri suoni: l’elettronica, il mondo digitale della electro-wave che si suona e si ascolta nei locali europei, la dance che si aggiorna e si trasforma con l’evolversi delle mode, dei ritmi e della tecnologia. I dischi ora si possono fare sul laptop. Le distanze non sono solo chilometriche, ma anche tecnologiche.

Ci sono più corsie, su questo ponte musicale fra nuovo e vecchio mondo. Perché se i beat sono tutti “europei”, lo spirito, l’anima di questo progetto è tutta argentina, la lingua lo spagnolo, le citazioni – audioclip che punteggiano certi momenti – rimandano a un vissuto, e sofferto, esplicitamente sudamericano. Il paese biancoceleste, va ricordato, ha vissuto fino all’83 la dittatura, e nel 2001 sta vivendo la sua peggiore crisi economica, inflazione a triple cifre. Gli hedge funds non si interessano né hanno rispetto per i Governi, figurarsi le tradizioni musicali.

Questo non è un disco dichiaratamente “politico”, ma fra le storie di passione dei sensi, in mezzo ai riff di bandoneon e ai poliritmi elettronici, non ci si dimentica di quello che è stato, ed è, la madrepatria.

L’album si apre con “Queremos Paz” e l’atmosfera si crea in un attimo: il riff di bandoneon e un jazz beat medio vanno in loop, poi un secondo bandoneon sobriamente melodico apre le danze. Il disco gira sul piatto, un groove lento e costante, circolare, come in una lenta attesa. È tango, sì, lo posso ballare? assolutamente sì, ma non è più quello di una volta. Ascolta le parole, che sembrano venire da una vecchia tv in b/n…

«Queremos costruir una vita mejor para el nuestro pueblo…
Independiente…
Queremos Paz»

Amiamo una vita migliore e la pace, recita il soundclip, la storia siamo noi, nessuno si senta escluso, a volte pretendere il normale è rivoluzionario. È come un prologo, che sfocia in una struggente “Epoca”, la voce di Cristina Vilallonga nella parte di una vedova di Plaza de Mayo che si rivolge al ragazzo di 25 anni prima, un’altra epoca, ben più dilaniata:

«Se è scomparso, in me riapparirà
Credevano fosse morto, ma rinascerà
Sentiamo una voce
E da un tango, il rumore di fazzoletto bianco
Quei tempi non erano buoni
Quelle arie erano cattive
Sono passati venticinque anni
E tu sei esistito senza ancora esistere…»

Non è l’unica goccia di memoria che casca da questo avanti/ indietro, un altro brano si chiama “El Capitalismo Foraneo”, il capitalismo sconosciuto, e loro se ne intendono, purtroppo. E in conclusione la splendida “Vuelvo Al Sur” di Piazzolla ricorda la fine della dittatura. C’è un’anima albiceleste che viaggia sui beats, ed è quella di Eduardo Makaroff, argentino emigrato a Parigi già da alcuni anni: canta, suona la chitarra ed evangelizza la sua musica d’origine.

Un giorno ha accompagnato da un musicista/arrangiatore che non aveva mai incontrato, Philippe Cohen Solal, una persona che vorrebbe fare un certo lavoro insieme e che porta con sé un cd di tango argentino. Solal rippa il dischetto, la persona non è interessante, ma la musica molto. I due si parlano, vorrebbero fare una musica che nessuno ha mai ascoltato prima. Solal, francese, ha un rapporto di consulenza con alcuni registi europei, sceglie e compone musiche e ha fondato due etichette indipendenti (sulla sua Ya Basta! uscirà l’album, prima che venga distribuito internazionalmente). Suona le tastiere e un po’ tutto quello che è elettronica, più o meno come il tecno-stilista Christoph Muller, svizzero, suo partner dal 1997 in un duo, Boyz From Brazil.

Il nome si rifà a un romanzo+film di fanta-politica (il dottor Josef Mengele crea 95 cloni di Hitler e decide di crescerli in Brasile. Il suo piano è quello di creare una serie di leader nazisti che possano continuare l’opera del Fuhrer, creando il Quarto Reich…), o forse semplicemente gli piace la musica latina e brasiliana. Scelgono un nome rifacendosi a un gioco di parole comune in gruppi chiusi come il Lunfardo che creano all’interno del proprio idioma dei codici: per esempio, quello di invertire le sillabe per non farsi intendere da altri. Loro lo chiamano “al verse” (lo speculare di “al revès”, al contrario), quanti di noi ci son cresciuti, con l’idea del “linguaggio segreto”. Tango diventa Gotan, e in fondo ha anche un senso etimologico di discontinuità con la forma originale.

Brasile e Argentina sono vicine chilometricamente, ma stilisticamente bossa e samba di sù, e milonga e tango di giù, sono mondi lontanissimi, in tutti i sensi. Da vivere, sentire, ballare. I tre cominciano un lavoro di sintesi, trovando una quadra che funziona: le melodie del tango, così evocative, da rapimento mistico e sensuale, sono il fil rouge, il sinuoso melodico che non si interrompe mai. L’elettronica è la pulsazione, il sostegno dove le melodie si appoggiano, che sia downbeat da languore notturno a luci basse, o swingante su qualche beat esotico.

Ma c’è molto di più, perché i Gotan sanno che la presenza, calda e analogica, di eccellenti solisti dalla madrepatria è il cuore, il calore che non può mancare. C’è il violino di Line Kruse, il contrabbasso di Fabrizio Feniglietto, il piano sopraffino di Gustavo Beytelmann, e Nini Flores al bandoneòn: sorta di fisarmonica più grande con tasti a bottone, il bandoneòn è il suono, l’essenza, l’imprescindibile timbro del tango. Lo senti, e lo sai. È lo strumento centrale di questi 59’ di musica, sia che avvolga l’ascolto con onde seduttive o che faccia dei brevi nervosi riff, quelli che nel rock suonerebbe l’elettrica.

Si guarda avanti, e si guarda indietro. In mezzo ai brani scritti da loro, ci sono tre cover, evidenti riferimenti. Due sono consanguinei di Eduardo, Gato Barbieri e Astor Piazzolla. La terza è un po’ più sorprendente, “Chunga’s Revenge” di Frank Zappa. Zappa? Sì, dove il wah-wah della chitarra e l’arrangiamento quasi-prog di MastroFrank, anno 1970, è sostituito da un drumming agile e una fisarmonica di sottofondo, fino al violino che svisa mentre il piano percuote. È una base bellissima per snocciolare nomi programmatici con la voce profonda, un po’ strascicata, di Willie Crook. Volete sapere chi siamo? Siamo questi:

«Piazzolla, Cura
Domingo Cura, super percussionista, è stato un altro innovatore contemporaneo ad Astor
Mad Professor, Zappa
Il professore pazzo del dub inglese e il genio bizzarro americano
Kruder & Dorfmeister, Pugliese
K&D sono i maestri dell’ambient/triphop/elettronica
Pugliese è uno dei direttori d’orchestra dell’era d’oro del Tango
Thievery Corporation, Castillo
Anche loro mettono basi elettroniche sotto musiche etnicamente shakerate
Alberto Castillo è uno dei primi attori e cantanti di tango
…Es la revancha del tango».

È la rivincita del tango. Il tango che non muore, che si evolve. Dalle radici fin nel presente. Dai saloni da ballo e i bar fumosi alla dance e allo show. Stesso spirito, universi sonori paralleli. Il mondo sonoro che i Gotan creano è un melting pot del 2000, cose vecchie e nuove insieme che trasformano il tango in una serie di varianti lungo le direttive del jazz, del chillout, con varianti world, ritmi di trip hop, di house. E una dose, discreta ma assolutamente funzionale, di dub. Nato in Jamaica, rilanciato in Inghilterra dal nativo guineano cresciuto a Londra Mad Professor (che qualche anno prima ha rimixato in dub il secondo album dei Massive Attack, “No Protection”), il dub è la primordiale ma geniale sottrazione del suono.

Levi gli strumenti, lasci solo batteria, basso (giganteschi nel reggae, non qui), qualche pennata di chitarra, vocalizzi incompleti immersi in un’eco profondo, e il silenzio. Come se saltassi un battito del cuore, come se rimanessi sospeso dalla gravità: l’urlo “el capitalismo foraneo” surfa su un dub – leggero, non minaccioso – altri due mondi lontani che si incontrano. “Santa Maria (del buen Ayre)” è un viaggio, oscuro e onirico, con il suo ricorrente voiceover “ay milonga d’amor”, che all’echo e al dub ci arriva alla fine, quando il ritmo sale.

“Triptico”, presente in quegli anni in ogni compilation che si rispetti, ha quel ritmo ostinato iniziale che poi si libera, la ritmica si trasforma, prima afro e poi samba e poi house, mentre il piano jazzato e la chitarra sopra ricamano e volano, in attesa che il violino e l’immancabile bandoneon la conducano verso un finale tutti-in-pista. La sensualissima “Last Tango in Paris” di El Gato, ritmica marcata, perde il sax e tutta la sua carica sessuale, è il pianoforte che la trasforma in una ninna nanna, là fra sogno e veglia, al sesso ci pensiamo domani? “La Del Ruso” è una jam percussiva, poliritmi ispirati da Domingo Cura, forse è tango, forse è jazz, forse qualcos’altro ancora.

Chiude questo viaggio, questa esplorazione in territori senza mappe, senza Lonely Planet in tasca, il brano scritto nel 1987 da Piazzolla e dal regista Fernando Solanas per il suo film “Sur”, che racconta il ritorno al Sud, all’Argentina liberata dalla dittatura. Nella versione originale la canta Roberto Goyeneche, uno dei grandi cantanti di tango, voce possente. Qui è più dilatato, lo canta la Villalonga con meno potenza ed enfasi, conservandone però tutta la poesia:

«Torno al sud,
come torni sempre ad amare,
Torno da te
con il mio desiderio, con la mia paura.
Porto il sud,
come un destino del cuore,
Vengo dal sud
come le arie del bandoneon.
Sogno il sud
luna enorme, cielo sottosopra,
Cerco il sud
il tempo aperto, perché è dopo.
Voglio il sud
la sua brava gente, la sua dignità,
Sento il sud
come il tuo corpo nell’intimità.
Ti amo sud
Sud, ti amo».

Questa canzone-simbolo del desiderio per la patria lontana chiude un disco che è ricco di fantasia, ma anche di rispetto. Pieno di nuances preziose, fraseggi tipici del tango, melodie e arie di grande atmosfera che sanno molto di cinematografico, un po’ perché i due europei da lì vengono, in parte, un po’ perché questa musica evocativa, con grande personalità ma se serve anche discreta, è una colonna sonora perfetta per tante ambientazioni diverse.

Non a caso, il cinema e la pubblicità la useranno tantissimo, da Jennifer Lopez e Richard Gere in “Shall We Dance?” a “Ocean’s Twelve”, dalle Olimpiadi di ginnastica a una serie molto estesa di remix in chiave dance/rap/tecno di tanti loro brani da parte dei DJ più famosi del mondo. E il loro amore per il visuale, aldilà degli stilosissimi videoclip, si manifesterà anche in concerti scenografici molto elaborati nella semi-oscurità, da vedere e da ascoltare, con una qualità di performance impeccabile. I successivi “Lunatico” e “Tango 3.0”, 2005 e 2010, perfezioneranno ancora di più la mezcla.

Una revancha del tango stesso nei confronti di coloro che esigono solo la tradizione, una variazione di gran classe ancora sulle infinite possibilità dell’unire puntini, fondere suoni e tradizioni, portare l’antico in un’era moderna, rivestendolo di suoni contemporanei. Uno di quei dischi che aprono un genere, nel quale cresceranno tanti artisti di Tango Nuevo: Tanghetto e Bajofondo, Federico Aubele e Narcotango, Otros Aires e Carlos Libedinski. Tutti, a modo loro, in cerca di traiettorie inedite, al limite dell’eresia purista. Con tutti loro, il tango vive nella sua dimensione nueva.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta


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