Pharoah Sanders | Il tormento, l’estasi e lo spirito mistico del Faraone del free jazz

La musica più cara è spesso legata a un momento, a un luogo. E ti rimane nella memoria, non se ne andrà più. È la magia del primo impatto, quello che ti arriva a sorpresa, ed è molto probabile che “quel suono” sia fra quelli che sentirai “tuoi” per sempre. Stanno là, incastonati nelle eliche del DNA. Io ne ho diversi, e il suono di Pharoah Sanders è uno di quelli.

Il momento dell’incontro lo ricordo come fosse adesso, anche se sarà stato il 1970 o giù di lì. Ero di fronte agli enormi (o almeno così sembravano, dei piccoli grattacieli da cui usciva un suono che a casa mia si sarebbe sentito decine di anni dopo, o forse mai) altoparlanti Tannoy GRF (con le trombe “esponenziali passive ad alveare”), roba mitologica, fidatevi. Era l’era dell’hi-fi, so che i figli non capiranno, ora in gara ci sono gli smartphone e le app. Però la ricerca del suono perfetto, che procedeva in parallelo con la ricerca musicale di quegli anni, era una fissa se non proprio di massa abbastanza diffusa, con riviste specializzate e tanti negozi dedicati. Pensate che cosa buffa, negli anni ’60 e ’70 c’era gente che voleva ascoltare in qualità più hi-fidelity possibile quegli oggetti tondi di plastica nera. E ora MP3 dovunque. «The times they are a-changing…».

Filippo Bianchi, ai tempi capelli come i moschettieri del Re e uno humour con risolino beffardo, qualche anno più grande e appassionato di jazz, aveva in camera quelle due meraviglie, e non solo ovviamente. Collegato aveva un piatto Thorens (design sublime), più un secondo Transcriptor, e un amplificatore McIntosh. Il tutto aveva un suono profondo come una giungla da cui non sapevi cosa sarebbe uscito. Un giorno, uscì un contrabbasso che risuonava come un’onda che si allargava in tutte le direzioni. Un pianoforte melodioso, delle percussioni africane, un sax che suonava una linea melodica serena, ma svisando ogni tanto, prendendo tangenti per poi tornare, lasciandoti sempre con la sensazione che tutto poteva improvvisamente cambiare.

Non avevo la minima idea di chi fosse, se non che se non ti aprivi la strada nella giungla ed entravi dentro quella colonna di legno era solo perché ti mancava al momento il machete. Era qualcosa caldo come un abbraccio, intenso e lievitante insieme. Era una musica che si spandeva nell’aria, aveva quella magia per cui la stanza era la musica, e viceversa. E ricordo questa voce che si alzava, morbida e soul ma capace di singhiozzare selvaggia come il barrito degli elefanti. Era quella di Leon Thomas, che tre anni dopo sarebbe salito a bordo della carovana del Carlos Santana in cerca di altri luoghi sonori (se ascoltate “Caravanserai” e i due successivi, “Welcome” e “Borboletta, troverete molte tracce dei passi di Pharoah in questo periodo).

Il brano, quello che ancora mi risuona, era “Hum Allah”, l’album “Jewels Of Thought”. Cantabile, orecchiabile, quasi un singolo. La cosa strana è che Pharoah veniva dal free jazz, dove la melodia ha un ruolo abbastanza marginale, e allora… come mai quel mantra così dolce e cantabile?

Gli anni 60 di Sanders sono stati di un’intensità innaturale. Ma comune ai jazzisti, in particolare gli afroamericani suoi contemporanei. Sono anni cruciali, in cui la società esplode in mille conflitti, dal Vietnam alla lotta per la liberazione della black nation, e la musica – il rock e il jazz, in modi diversi – lo riflette.

Farrell Sanders viene da Little Rock, Arkansas, profondo Sud: viene avviato al sax tenore dal suo professore di musica e in città – segregata come d’abitudine in quelle degli stati confederati – suona dove può, cioè nei club per gente nera. Emigra, prima a Oakland sulla Baia e poi a NYC sull’altra costa, libero ma squattrinato e costretto più volte anche a portare il suo strumento al banco dei pegni. Frequenta la nascente scena del free-jazz: Archie Shepp, Don Cherry, Sun Ra, il viaggiatore astrale che sarà influenza musicale e concettuale, che gli suggerisce Pharoah al posto di Farrell, ricollegandolo alla mitologia delle piramidi, alle leggende della divinità umana e creando un ponte immediato con l’Africa.

È l’incontro con John Coltrane quello decisivo: quando nel 1965 Coltrane si allontana ancor di più dall’estetica maturata col capolavoro “A Love Supreme” e chiama su “Ascension” una nutrita schiera di musicisti a creare un suono vasto, dissonante, decostruito, non più il quintetto compatto di prima, il Faraone c’è. E più che un arrivato di fresco sembra parte della famiglia. O meglio, come dirà Albert Ayler, che al free jazz aveva fatto da apripista anni prima: «Coltrane è il padre, Sanders il figlio e io lo Spirito Santo».

Che tempi. Biblici. L’impatto di Sanders è così forte che molti sobbalzano alla maniera violenta, torturata, dissonante di spingere il suo sax verso l’estremo. Più di Coltrane stesso. Ma il free jazz interpreta – da un punto di vista libero e iconoclasta – quello che avviene in strada: l’uccisione di Malcolm X, le Pantere Nere che irrompono sulla scena, gli assassini nel ’68 di Bob Kennedy e Martin Luther King, le croci e i cappucci bianchi del KKK, le città che vanno a fuoco, la guerriglia nelle strade.

Nel 1967 Coltrane se ne va in un attimo e Pharoah, insieme alla vedova Alice Coltrane, ne raccoglie l’eredità portando avanti l’idea di una musica di ispirazione cosmica. Da “associato” a bandleader il salto è grande, ma dopo aver firmato per la Impulse – l’etichetta di jazz più innovativa del periodo – pubblica in 7 anni ben 11 album, tutti di livello altissimo, portando l’essenza della sua musica in una direzione imprevista, ma comune a tanti altri jazzisti a partire da Coltrane stesso: quella di un ricongiungimento sia con la fisicità delle radici afroamericane che con la propria anima, con il Creatore (chiunque esso sia): ognuno sul cammino personale, questo è il momento in cui elementi cristiani e musulmani e indiani e animisti entrano nella musica, nei testi, nei vestiti, sulle copertine: sono il ponte per la ricerca dell’Assoluto. Che poi, in musica è quello a cui aspira ogni artista (e non solo jazz).

«Principe della Pace, ascolta le nostre invocazioni
E suona le tue campane di pace
Fa che l’amore non si fermi mai…»

Il testo di Thomas, inizialmente differente e che Pharoah gli fa riscrivere perché colga il sentimento dell’unità che vuole interpretare, è chiaramente un canto spirituale, un’invocazione alla pace. Forse un po’ naif, come se bastasse dire “battete le mani, 1-2-3” per far sì che il desiderio divenga realtà, ma sincero. Lo era anche il precursore, “The Creator Has A Masterplan”, il brano di 32’ che occupa quasi tutto il suo Lp precedente, “Karma”, anno il sempre assai creativo 1969:

«Il Creatore ha un masterplan
Pace e felicità per ogni uomo…»

Nel jazz è entrata una ricerca di spiritualità, di grande abbraccio con l’energia del pianeta e delle sue anime, di riconoscimento di una entità superiore. D’altra parte, Pharoah ha anche altre radici, quelle in una musica “libera” per definizione, dove il disordine e l’estremo hanno come conseguenza anche ululati, rabbia, durezza, stridore, ribellione alla forma esistente.

Questa dualità è la cifra degli album di Pharoah Sanders: da una parte lo spirito senza struttura, improvvisativo e più cerebrale, free allo stato puro, e dall’altra un lato più morbido, da soul brother, distinto da una spiritualità serena, persino gioiosa. Un doppio registro a volte diviso su brani diversi, ma più spesso all’interno dello stesso, specialmente in quei suoi lunghi, sinuosi voli liberi di durata di 15, 20, anche 30 minuti e oltre. Non hanno chiaramente più la forma di un brano, ma sono onde lunghe, che arrivano in spiaggia e poi si ritraggono per ritornare ancora, a volte dolcemente, altre volte picchiando duro sulle rocce e alzando un pandemonio. Sono viaggi sonori che entrano ed escono da stanze diverse fra loro, a volte opposte, ma che Sanders userà solo in questi due album, negli altri le lunghezze saranno tutte più compatte.

Il suo co-pilota è un giovane pianista che ha già suonato con Miles Davis e che più avanti, dopo aver suonato con Gato Barbieri, realizzerà di dischi di fusion, funk ed acid jazz di buon livello. Si chiama Lonnie Liston Smith, e il suo stile liquido, melodico, swingante è il perfetto contraltare: quando su ‘Um-Allah’ dopo una decina di minuti di piacevole soul jam senza confini l’improvvisazione circolare di piano viene sopraffatta dal sax del Faraone e la morbidezza viene strappata via, lo scenario e l’energia cambiano di colpo.

Ma anche quando il sax stride, strepita, gira su sé stesso ogni volta scorticando un po’ di più, sotto sembra sempre che il flusso scorra, e l’intenzione sia in controllo. Quando dopo solo due minuti la tensione si scioglie, la batteria e le percussioni ricominciano a scorrere e il piano di Lonnie rotola elegante, capisci che è finita la tempesta, arriva il sereno e tutto può ripartire al meglio, in una chiamata-e-risposta fra Sanders e il canto in stile yodel (inedito nel jazz, e su cui i pareri sono sempre stati abbastanza discordi) di Leon Thomas.

“Sun in Aquarius” occupa tutta la seconda facciata, 28’ che iniziano per oltre 11’ nella cacofonìa, strumenti sovrapposti che cercano uno spazio, in piena free-jam. Se ne esce con la voce di Leon e il sax morbido che riportano alla melodia, ma più volte Sanders strappa, esce dallo spartito e decolla, nello stile del suo maestro Sun Ra, verso l’infinito e oltre.

“Karma” e “Jewels Of Thought” sono in fondo due dischi gemelli, incisi nel corso di un anno, in cui gli elementi, gli ingredienti sono gli stessi, solo mischiati e lasciati cuocere in maniera diversa. La lunga navigazione astrale di “The Creator Has a Master Plan” è più selvaggia, la radice free molto più sentita e compiuta, ma anche qui, come per magia, dal caos fuoriescono puliti ritmo e melodia, tutto si ricompone, si sfreccia via veloce. Per poi rituffarsi nel vortice, e poi ancora ritrovare la pace.

Come se davvero dopo aver pagato il proprio karma si possa finalmente ritrovare la propria realizzazione nei reami interiori. Il tutto supportato dall’intensità del sax di Sanders, quel tono pieno, grasso, ricco di armoniche, che può accarezzare o far torcere da dentro, rimanendo sempre così riconoscibile, e così irresistibile. In quel momento pochi, forse nessuno, suona come lui, come una volta certificò Ornette Coleman: «probabilmente il miglior sax tenore del mondo»

Sono dischi che rappresentano – dal punto di partenza del jazz – la ricerca di una musica senza confini, aperta all’etnico e allo spirito, il tentativo di una musica universale che rappresenti sia il tormento che l’estasi. Sia l’umano che il divino.

P.S. A proposito, Filippo Bianchi in questi 50 anni è stato Direttore per 11 anni di Musica Jazz, ha fondato l’Europe Jazz Network, e ha tenuto bellissime lezioni di jazz all’Auditorium a Roma. Ha ancora l’impianto, anzi, sta cercando una casa giusta per le Tannoy, e non viceversa. Curiosamente, qualche tempo fa ha scritto del suo impatto con Pharoah, un anno prima del mio, e ha trovato un’immagine per la ‘dualità’ di Pharoah che mi pare perfetta: «Immaginatevi di fare una gita sul Vesuvio, e mentre fra i canti degli uccellini contemplate la dolcezza collinare della Campania felix, senza alcuna avvisaglia cambia lo scenario: erutta la lava, i lapilli schizzano dappertutto, il paradiso si trasforma in un inferno».

Le due dimensioni del grande Pharoah Sanders.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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