Fantasia al potere | “The Lamb Lies Down On Broadway” è il grande affresco simbolico del genio dei Genesis di Peter Gabriel

The Lamb Lies Down On Broadway rimane, a distanza di 46 anni, un album (doppio) molto particolare: un’opera monumentale, una scrittura di complessità testuale e di ricchezza musicale strabiliante, eclettica oltre i confini conosciuti del progressive. Un ponte, col senno di poi, fra il prog e la new wave, o meglio, il post-rock che Bowie certificherà con la sua trilogia berlinese. 

Per questo suo senso di grandiosità, per la visionarietà della trama e per essere causa ed effetto del canto del cigno di Peter Gabriel con i Genesis, è stato anche uno dei dischi più discussi e amati-o-odiati della storia del rock: chi l’ha considerato il punto d’arrivo più alto dei cinque ex-studenti della prestigiosa Charterhouse, chi lo considera un album pretenzioso, oscuro, persino incomprensibile. 

Oscuro e difficilmente penetrabile lo è, tanto che la sensazione è che sia stato più ammirato che capito. Un disco che evoca ancor oggi umori diversi persino all’interno dello stesso quintetto che lo ha partorito – non senza dolore – nel lontano 1974.

I Genesis vengono da una sequenza di quattro album (“Trespass”, “Nursery Crime”, “Foxtrot” e “Selling England By The Pound”) che hanno definito lo stile e le potenzialità del progressive rock. Sono costruttori di mondi, sia sonori che immaginifici. 

Le loro favole, in cui si mischiano tanti elementi – fantasy, humour un po’ macabro, allegorie, tradizione inglese – sono frutto della debordante fantasia del loro cantante: Peter Gabriel è un front-man che – soprattutto sul palco – porta in scena un caleidoscopio di personaggi, di voci, di maschere. 

Lentamente hanno guadagnato popolarità e vendite (ma saranno in rosso fino alla loro svolta pop degli anni successivi), carburante più l’ambizione di essere importanti piuttosto che quella di essere di successo. 

La parte strumentale è di ricchezza infinita, i tappeti sonori delle tastiere di Tony Banks a creare atmosfere impressioniste, la chitarra di Steve Hackett a dare colore e suggestione, la ritmica di Mike Rutherford e Phil Collins estremamente flessibile, potente quando serve, delicata come una carezza quando la temperatura emotiva si cheta. 

C’è melodia, ci sono gli scenari, c’è la rappresentazione. Non deve sorprendere che siano così amati in un Paese come il nostro dove la tradizione non è il blues afroamericano ma la Lirica europea. Ma i Genesis, in realtà, una vera Opera Rock non l’hanno mai scritta, a differenza degli Who di Tommy e Quadrophenia. Non hanno mai fatto un concept album, un album con un solo tema, come molti altri gruppi che seguono l’onda. 

Quando il gruppo si riunisce per decidere quale progetto iniziare, un certo accordo sul prendere distanza dal mondo ammantato di leggende antiche e suggestioni fiabesche c’è. Rutherford propone di ispirarsi al tema del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupery, un superclassico delle letture giovanili. 

Peter ha in testa tutt’altro. Ha un innato istinto strategico che lo fa guardare avanti, sa che un vero salto di scenario sarebbe parlare del presente, di quello che succede nella strada. «Eravamo nel 1974», dirà, «era il periodo pre-punk, ma ciononostante pensavo che sarebbe stato meglio basare la trama su un personaggio contemporaneo, piuttosto che una creazione di fantasia. Cominciavamo a entrare nell’epoca dei mastodontici supergruppi degli anni 70, e pensavo di non aver nessuna voglia di affondare con il Titanic».

Siamo qualche anno in anticipo rispetto all’esplosione del punk, eppure sceglie come protagonista della sua favola di strada un portoricano, un punk, ovvero – nel significato iniziale – un teppistello ribelle. La sua è una odissea urbana che ha in sé due ispirazioni: il cosmico percorso di redenzione di Christian, il protagonista di ’Pilgrim’s Progress’ (in italiano il ’Pellegrinaggio del Cristiano’), viaggio allegorico dalla Città della Distruzione (il nostro mondo) alla Città Celeste (il Paradiso); e ’West Side Story’, ambientata negli anni 50 sulla Upper West Side, firmata da Stephen Sondheim e Leonard Bernstein con interpreti americani e portoricani.

A parte le due citazioni di letteratura inglese classica (’Pilgrim’s Progress’ è considerato il primo romanzo scritto in lingua inglese, ’West Side Story’ è rielaborazione in musical di ’Romeo e Giulietta’ di Shakespeare), è evidente che l’Inghilterra del 1600 di Bunyan e la multiculturale New York sono mondi lontanissimi. Eppure Peter è, e lo capiremo nei decenni successivi, un uomo che lega magnificamente gli estremi: tecnologia e primitivismo, suono e visuals, fantasia e reale. Real e il suo anagramma Rael, in questo caso. 

Le ambizioni di Gabriel sono grandiose. Vanno al di là dello scrivere nuove canzoni. ’The Lamb’ è un grande affresco simbolico nel quale l’unica vera figura reale è Rael, Imperial Aerosol Kid, lui e la sua bomboletta spray da graffitaro. Il nuovo look è jeans, t-shirt bianca e giubbotto di pelle nera, occhi bistrati e capelli corti. Decisamente più sobrio (e contemporaneo) dei suoi look stravaganti, anche se poi qualche cambio di costume dal vivo ci sarà. 

Intorno, ruota una pletora di personaggi-simbolo: c’è il fratello John, il suo doppio. Ci sono due creature prese dalla mitologia classica: la prima, Lilith, è presente nella tradizione mesopotamica, poi talmudica e cristiana, in origine il demone femminile della tempesta. Qui però è Lilywhite, bianca come il giglio, ed è una donna cieca e protettiva che lo accompagna per un tratto. 

Le Lamia nella mitologia greca sono creature metà serpente metà donna, che come le Sirene di Ulisse ammaliano e mangiano gli amanti; qui però sono loro che muoiono quando assaggiano il sangue di Rael, per poi rinascere daccapo. 

C’è la colonia degli Slippermen, simili a dannati in un Inferno dantesco, imprigionati per i loro peccati di lussuria in quel corpo mostruoso che in scena Peter interpretava con costume bitorzoluto. 

Ci sono i carpet crawlers, che strisciano verso la porta, ascoltando il richiamo, il «you got to get in to get out» che si può intendere anche come metafora: «Dovete entrare per poter uscire» indica il passaggio attraverso una ’soglia’ – ma potrebbe anche essere intesa come la necessità di un percorso interiore per ottenere la liberazione (gli esserini striscianti sul tappeto a qualcuno sembrarono anche una metafora degli spermatozoi: conoscendo il curioso humour sessuale di Peter non lo escluderei a priori). 

Insomma ci sono cento citazioni (da Groucho Marx a Superman), c’è pathos e c’è ironia, come quella del bulletto di strada che al suo primo incontro sessuale arriva preparato dal manuale sulle zone erogene (fallendo, ovviamente). I piani di racconto o di metafora a volte si dispiegano, altrove sono lasciati a rimanere lì, misteriosi.  

Rael vive un’esperienza trascendente, un viaggio onirico simile a quelli a base di peyote dello scrittore e mistico Carlos Castaneda. Un sogno che ci porta in luoghi e di fronte a figure simboliche, fin dal titolo: l’agnello, l’innocenza che si manifesta una mattina all’alba, nel luogo più peccaminoso della metropoli, Times Square. 

Da quella visione surreale parte un viaggio, ineluttabile e fuori controllo: una serie di prove da superare per salire di livello – come in un videogioco, diremmo oggi – un’odissea il cui scopo non è chiaro, è un mistero che si dipana. È un’allegoria della vita, dell’evoluzione dell’uomo, fra carne e spirito.

La trama si svela solo alla fine: dopo aver alternato stati d’animo opposti – spaventato e speranzoso, blandito e violentato, il fratello amato che sembra evitarlo – avendo visto negli Slippermen a quale mostruosità porta il sesso senza amore – viene convinto a una scelta estrema: un rituale di castrazione come purificazione dalla lussuria. 

Quando un corvo ruba l’involucro che contiene il suo pene, Rael lo insegue, e sa che ha un’ultima fugace possibilità di ’uscire’, di tornare in superficie attraverso lo spiraglio che si sta chiudendo sopra di lui. Ma sotto di lui, in mezzo alle rapide del fiume, scorge il fratello John. È a un bivio. O la sua salvezza, o quella di John. 

È un gesto d’amore assoluto. Forse è il sangue che li lega, forse il fato che chiama, forse è istinto salvifico. Rael si tuffa, lo agguanta, e quando lo porta a riva e lo guarda, John ha il suo volto. Le due parti si sono riunite. Rael scegliendo l’amore si è salvato. L’amore redime. La parabola dell’arcangelo Gabriel è completa. L’innocenza, il peccato, la purificazione, la redenzione. 

Nonostante sia passata la sua proposta, il momento per Peter è molto complesso, quasi un uno contro tutti: intanto, c’è un po’ di gelosia per il suo ruolo, diventato per stampa e fan predominante, poi Peter stesso è ondivago, vorrebbe farne una versione cinematografica con William Friedkin, che ha appena realizzato ’L’Esorcista’ (e che lo sconsiglia). Sua moglie ha un parto molto difficile, la primogenita seriamente a rischio, e passa molto tempo a casa, lontano dagli studios, ferito dal fatto che a nessuno sembra importare quello che sta passando. Ci vorranno anni – e la consapevolezza da neo-genitori per Mike e Tony – per sanare la ferita. 

La band prosegue, e compie un lavoro straordinario, perché la varietà musicale è davvero folgorante, molto più avanti, moderna, innovativa di quello fatto finora, ma Peter è sempre in ritardo sui testi, che continuerà a scrivere e cambiare anche al momento di incidere le parti vocali. Insomma, il clima è tesissimo, e c’è davvero da meravigliarsi che il risultato finale sia così straordinario. 

Da un punto di vista musicale, l’album è un tentativo di spostare le frontiere musicale del gruppo, introducendo brani più brevi, lasciando gli strumentali più compatti e i solo più funzionali. Sono sempre i cari vecchi Genesis, ma più vari, più inaspettati e attrattivi per coloro che non erano del tutto convinti che «moriremo tutti progressive». 

Ci sono momenti epici e altri di dolcezza struggente, un’improvvisazione cacofonica per sottolineare il disorientamento di Rael o il rock duro quando si impatta con la realtà di NYC; interludi impreziositi da melodie Genesis-doc e i tipici dialoghi/break in stile musical quando la musica si fa comedy. Non è un esercizio di stile, ma una integrazione di efficacia straordinaria: musica e testo non si perdono mai di vista, la scrittura è a tratti sublime, mai noiosa o lasciata al caso. 

È vero che Gabriel costringe gli altri a mutare, a lasciare il suono pulito e melodioso dei Genesis in favore di qualcosa di più distorto, i ritmi che si fanno pulsanti, ossessivi, tutt’altro che rassicuranti. Ma è anche vero che la stessa operazione Gabriel la fa su di sé: opera con la mano del chirurgo genetico folle, o forse solo preveggente, e la sua voce a volte ne esce distorta e stralunata, spesso sepolta nel mix, come fosse un altro strumento. 

Nel fare questo, però, Peter porta i Genesis nel futuro, in una modernità di suono e di contesto narrativo a cui probabilmente gli altri non avrebbero mai pensato. Un mondo nel quale la pulizia formale del prog, i grandi solo di Banks alle tastiere, le suite interminabili sarebbero sembrate un po’ superate, una pietra fondante da lasciare però indietro per evolversi al passo coi tempi. 

Con ’The Lamb’ non solo i Genesis ma il prog stesso arriva fino al limite. Al grande bivio, o se volete nella metafora della ’Stanza dalle 32 Porte’: una sola uscita e tutte le altre porte che ti rimandano indietro. Indica una strada, una possibile evoluzione. Come ben sappiamo, i Genesis non la seguiranno, dopo l’addio di Gabriel ripiegheranno sul mantenimento del già esplorato, semmai con una contaminazione più pop.

La continuità con ’The Lamb’ la ritroveremo semmai negli album solisti di Peter degli anni 70 e 80, dove il suo percorso si farà più sperimentale, digitale, contaminato. Ma finché la strada è comune, i Genesis sono un veicolo ideale, una band stratosferica, carica di innovazione: il basso di Rutherford in apertura, slappato e distorto, è puro funk anni 80, il drumming del futuro-cantante-Phil è stellare, passaggi di difficoltà scoraggiante sono fluidi come lo scorrere del tempo. Tony Banks si alterna fra ogni possibile tastiera – dal mellotron al sintetizzatore, dal piano all’organo – e Steve Hackett con la sua chitarra strecciata è già nel futuro. Il giovane Brian Eno, appena uscito dai Roxy e reduce dai ’Frippertronics’ insieme a Robert Fripp, aggiunge qualche diavoleria elettronica al tutto. È una musica incantatrice, continuamente diversa, con momenti di assoluta magia. 

Ci sono molti brani di livello straordinario, e si fa anche un po’ fatica a considerarli uno per uno, perché ho sempre pensato a “The Lamb” come un viaggio, un suono, un’esperienza da vivere per intero e non  per singolo brano: nel ’primo Lp’ l’equilibrio è verso il bombastico (la title track di apertura e ’Fly On A Windshield, ’In The Cage’ e ’Back In NYC’), bilanciati da due perle morbide ed evocative come la strumentale ’Hairless Heart’ e la sontuosa ’Carpet Crawlers’, e si chiude con un altro gioiello che sintetizza le due tendenze, con la voce di Peter che interpreta magnificamente il dubbio e il tormento della scelta di quale direzione prendere in ’The Chamber of 32 Doors’. 

Il ’secondo Lp’ è più contenuto, meditativo, e i brani hanno spesso l’intimo e il bombastico insieme: ’Lilywhite Lilith’, ’The Colony of Slippermen’, la magnifica ’The Lamia’ e ’The Light Dies Down On Broadway’. Molti sono strumentali, d’atmosfera, esistono in modo meno autonomo, sono plasmati dagli avvenimenti della storia di Rael: ’The Waiting Room’, ’Anyway’, ’Supernatural Anaesthetist’, ’Silent Sorrow In Empty Boats’, ’Ravine’. Il resto è più vicino ai Genesis-prog-di-prima (senti ’Riding The Screen’ e non sai più chi fra Genesis e PFM copia chi), e il finale (’In The Rapids’, ’It’) potrebbe anche stare su un Genesis precedente.  

Quindi non ci si può meravigliare se sia un album difficile da abbracciare, conoscere a fondo, interpretare, o conoscere a memoria in tutti i passaggi, come si faceva una volta, cuffie in testa e testo davanti (non meno di una settimana, garantisco: i dischi, in quell’epoca, erano a volte così densi che richiedevano veri corsi di studio).

Una dimensione XXXL (94 minuti e 17 secondi) rischiosissima e, per molti, anche un po’ scappata di mano. È vero, probabilmente un po’ di editing avrebbe reso il tutto più compatto. Vero, è stato un disco più ammirato che capito. Ed è vero che il suono finale avrebbe potuto essere meno impastato, più chiaro e trasparente. E poi, qualche salto di narrazione c’è, ma in quale lavoro di fantascienza tutto ha una logica stringente e ineludibile? 

Se lasciate alle spalle tutto ciò, ed entrate senza riserve con Rael nel Mondo di Sotto, troverete una ricchezza di temi musicali e di temperature emotive rare anche per l’epoca. Una gigantesca operazione di scrittura e composizione che sorprende ancor oggi per fantasia, cura per il dettaglio, efficacia del rapporto parole/musica. Comprensibile meglio se si pensa al doppio album come il copione di una rappresentazione da vivere appieno sul palco, più che sullo stereo: questa ricchezza di temi, alternanza di generi, i tanti passaggi che ricuciono e indirizzano il racconto non sono casuali: da ’West Side Story’, aldilà dell’ambientazione newyorkese, ’The Lamb’ ha preso anche la struttura del musical, della grande rappresentazione teatrale. Mi piace considerarla la prima Rock Opera multimediale.

Che di questa tournèe esista solo (sul cofanetto ’Archive’) una registrazione audio, e di video ci sia solo qualche spezzone dei fan (c’è su YT un montaggio di tante micro-sequenze da materiale amatoriale), la dice lunga su come era il music biz di 45 anni fa. Preistoria, o quasi: incredibilmente lo show non è stato mai filmato, una inspiegabile contraddizione da una band pioniera dello spettacolo visuale, e un irrecuperabile buco nero nella storia del rock (che la versione dei Musical Box, la cover band canadese perfetta replica dell’originale, palco e diapo comprese, può colmare solo in parte).

Ma forse questo aggiunge solo un ulteriore alone di mistero e sfuggevolezza a uno dei dischi più sorprendenti, complessi e ambiziosi mai realizzati. Il punto concettualmente più alto e ambizioso del progressive rock. Il figlio genialoide, anche se in gran parte incompreso, di quell’epoca meravigliosa in cui tutto, ma proprio tutto, era possibile.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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