Counting Crows - Butter Miracle Suite One (2021)

 di Alberto Calandriello

La domanda che ogni fan dei Counting Crows si pone prima di ascoltare un loro nuovo album è sempre la stessa: Adam sarà riuscito a risolvere i suoi problemi di insonnia? Scherzi a parte, la tematica è frequente nei loro brani, al punto che lo stesso Duritz ci ha riso sopra nel concerto per i 20 anni di August And Everything After, durante Anna Begins (“fuck, I never sleep” esclama a metà canzone), ma soprattutto è segno di un costante conflitto interiore tra l’ambizione e la voglia di ritrovarsi. Se August nel 1993 era un esplicito tentativo di affermarsi ed avere successo (e le due cose non sempre vanno di pari passo), come cantavano nella hit Mr Jones (quando guardo la televisione voglio vedermi nello specchio che mi sorrido), tutta la loro carriera è stata un susseguirsi di questi due sentimenti, sognare di diventare famosi e temere che l’essere famosi peggiori noi stessi. Una carriera non certo prolifica, se si pensa che in 28 anni questo nuovo EP è solo l’ottavo album in studio e segna il ritorno della band californiana dopo Somewhere Under Wonderland del 2012. Quattro canzoni legate assieme in un’unica suite quindi, con un filo conduttore musicale che si trova nel pianoforte di Adam ed uno legato ai testi, che identificano i 20 minuti scarsi dell’EP come una lunga riflessione su sé stesso da parte di Adam, che ragiona sul suo essere uomo e rockstar, come spesso ha fatto.

Il miracolo del burro lascia intendere un riferimento forse alle tragicomiche dirette Instagram dove Duritz, probabilmente nel tentativo di spogliarsi completamente dal “mantello di rocker” appariva senza barba e dreadlocks, impegnato a cucinare piatti nemmeno troppo appetitosi. Da Mr Jones a Benedetta Parodi? Ci chiedevamo noi fans atterriti; ma è bastata una apparizione “in smart working” al Jimmy Kimmel Live, dove si è seduto al piano e ha proposto una versione di A Long December, per farsi perdonare i grembiuli e il taglio di capelli.

Un lungo periodo di riflessione, passato nella campagna inglese, spesso in completa solitudine; Butter Miracle, Suite One nasce da qui, da pensieri che lentamente prendono forma e vita, con la solita spietata onestà dei suoi testi e ovviamente la capacità della band di creare attorno alle liriche di Adam quel marchio di fabbrica ormai inconfondibile che li rende tra gli eredi più credibili di The Band, a cui sicuramente si ispirano per dare sostanza alle atmosfere dei pezzi.

Brani che nascono dalla solitudine dunque, prima che la solitudine diventasse inevitabile, ma che in qualche modo la raccontano, nonostante siano nati nell’agosto 2019, quando, appunto, restare soli era ancora una scelta. Di questo parla Tall Grass, che racconta le similitudini e le differenze tra il perdersi in un bosco e perdere sé stessi. Sappiamo sempre dove siamo, ma a volte dovremmo capire meglio dove stiamo andando. “Can you see me?” Si chiede Adam, anche in questa canzone; la necessità di trovare negli altri risposta al proprio desiderio di affermazione e riconoscimento, ennesima costante a cui cerchiamo risposta dagli esordi (ascoltare Have You Seen Me Lately? da Recovering The Satellites, ad esempio).

A seguire il primo singolo, Elevator Boots, dove il protagonista è un tipo famoso, uno che piace e cattura l’attenzione e se Mr Jones ci diceva che “quando tutti ti amano, non puoi mai sentirti solo”, qui capiamo che “tutti vogliono conoscerci, quando siamo gli unici da conoscere”. È una canzone che sembra ambientata negli anni 70, quando essere in una band significava appunto essere identificato in un modo chiaro e preciso, forse pure da sé stessi. Amarezza e disillusione però permeano il brano, che Adam ha composto riflettendo sugli ultimi tour e sul suo contraddittorio rapporto con il music-business. Lo stesso contesto tornerà poi nell’ultimo pezzo, ma da una prospettiva diversa.

Si continua con Angel Of 14th St., si resta nel binario della tradizione, ossia della capacità della band di creare coordinate geografiche ben precise e identificabili. Questa volta protagonista è New York, di cui Duritz vuole fare un ritratto mitico, mettendo però in guardia sugli effetti che le “big city” hanno sulle nostre vite e sulla nostra personalità. Dalla solitudine della campagna inglese quindi si passa al caos della grande mela, con una tromba a farci da guida.

Bobby and the Rat-Kings chiude la suite e riprende Elevator Boots, spostando però l’attenzione dal cantante della band a chi sotto il palco cerca risposte e motivi per andare avanti. “La nostra generazione non ha nemmeno un nome, ci limitiamo a comprare quello che vendono in tv e continuamente desideriamo di essere qualcun altro”, un ritratto impietoso dei suoi coetanei, ingabbiati tra boomers e millennials, incapaci di trovare da soli una strada, un traguardo, ma che “stanotte nel buio (del concerto) possono essere sé stessi”. Ritorna la necessità di determinarsi e realizzarsi, stavolta indossata da chi nelle note e nelle canzoni altrui cerca, appunto, una soluzione. La musica come parentesi e fuga da una realtà che quasi sempre ci lascia indietro, come dimostrano le difficoltà a restare al passo dei nostri stessi apparecchi informatici e a non farsi sopraffare dalla virtualizzazione dei sentimenti (“From Tinder to Cinder” è una frase che da sola spiega un bel po’ delle relazioni online). Musica come rifugio, illustrata raccontando il terremoto a S.Francisco del 1989, musica come viaggio, in compagnia dei protagonisti de Il mago di Oz citati nel brano sempre in modo autobiografico. Bobby and the Rat Kings sono un gruppo che non esiste ovviamente, ma rappresentano quello che ognuno di noi decide di chiedere alla musica, sono risposta, sono domanda, dubbio, stimolo, ma anche disillusione e delusione, sono la musica stessa e quello che noi decidiamo essere l’importanza che ha nelle nostre vite.

Se da anni Adam cerca nella sua immagine pubblica un chiarimento su sé stesso, band come i Counting Crows, anche in episodi fugaci e decisamente brevi come questo ci ricordano quanto la musica possa esserci d’aiuto.

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