Rhiannon Giddens – They’re Calling Me Home (2021)

 di Gianfranco Marmoro

Un altro racconto nomade, un nuovo capitolo musicale dalle profonde valenze culturali, Rhiannon Giddens e Francesco Turrisi, dopo aver adottato l’Irlanda come nuova patria, rinnovano il prezioso gemellaggio messo a punto con “There Is No Other”, suggellando nello stesso tempo quello più intimo, romantico e personale. “The’re Calling Me Home” è un’altra esplorazione antropologica, il linguaggio musicale di base è quello dell’Irlanda, non nella sua accezione popolare e folk più stretta, quanto nella non sempre evidente connessione con altri lessici sonori.

I due artisti affrontano la vastità delle proprie radici recuperando brani radicati nella memoria: nelle origini africane di Rhiannon Giddens, o nelle più complesse interazioni stilistiche di Francesco Turrisi.

“The’re Calling Me Home” è un album intenso, eppure informale, non v’è brano che non lasci traccia, soprattutto quando i musicisti elevano gli accenti, prendendo a modello la complessa trama di amore, libertà e morte della straziante “Calling Me Home” di Alice Gerrard, affidandole l’apertura dell’album.

E’ un opera caratterizzata da un forte senso della nostalgia. Bluegrass, ethno-folk, e musica operistica sono il canovaccio sul quale i due artisti ricamano un forte tessuto di emozioni e di vibrazioni musicali, dove gli unici parametri di riferimento sono la purezza e la bellezza. Non v’è però niente di didascalico, in “The’re Calling Me Home”. Il fronte dei sentimenti non è infatti sempre confortevole, unico bagliore di luce e pace, al tono malinconico e cupo altrove imperante, è affidato a “Niwel Goes To Town”, brano strumentale sottolineato dal prezioso tocco delle corde di nylon della chitarra di Niwel Tsumbu.

Rhiannon e Francesco cantano di luoghi natii, ma anche di morte: lo spiritual-blues di “O Death” è in tal senso una scossa emotiva, Rhiannon Giddens ne forza il pathos funereo sovrapponendo tre voci, scuotendone così la selvaggia drammaturgia.

C’è un forte senso di intimità e spiritualità in queste dieci canzoni e due strumentali, la terra, colei che dona e riprende la vita, è un’entità trascendente, la musica e il canto ne sono la chiave d’accesso, un luogo immaginario e mitico che è ben evidenziato nel vorticoso tripudio jam-folk di “Avalon”.

In più di un frangente Rhiannon Giddens mette a frutto il passato di cantante lirica, passando dalla grazia sempiterna e lievemente barocca di “When I Was In My Prime” di Nina Simone (brano nobilitato anche dai Pentangle in “Cruel Sister”), alla ninna nanna pugliese “Nenna Nenna”, un ricordo d’infanzia di Turrisi, con una versatilità e un’intensità armonica che lasciano senza fiato.

Tutto l’album è un gioco di reinvenzioni, una serie di incontri tra linguaggi e culture che riesce ancora a stupire: la celebre “Black As Crow” è fonte di delizie sonore, grazie al pregevole dialogo tra banjo e violino, lievemente domato dal suono del flauto di Emer Mayock; la tormentata ballata popolare “Waterbound” incrocia la nostalgia per la North Carolina con la poesia dell’Africa; mentre per la tradizionale “I Shall Be Moved” il banjo chiama in soccorso l’energia delle percussioni.

Ci sono altri momenti topici in “The’re Calling Me Home”, capilinea di un viaggio multiculturale che i due musicisti affrontano con uno sguardo di conforto e malinconia, che trova enfasi nello splendido madrigale “Si Dolce E'l Tormento” di Monteverdi, interpretato dalla Giddens con passione e controllo di voce, e nell’ingegnosa versione di “Amazing Grace”, costruita su un ritmo battente, un canto a bocca chiusa e l’ingresso risolutore di una cornamusa.

Di tutte le possibili chiavi di lettura di questo nuovo album di Rhiannon Giddens e Francesco Turrisi, quella più vicina alla realtà è strettamente collegata alle infinite possibilità dell’interazione tra popoli diversi eppure intimamente affini, un paradigma creativo e artistico che i due musicisti onorano con classe e intelligenza.

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